Achille Funi, tra classicismo e intimità

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Rimane un piccolo mistero che la fama postuma di Achille Funi abbia bisogno di periodiche riscoperte, e possiamo sperare che quest’ultima, nella Ferrara in cui nacque, sia decisiva: onore al merito a Vittorio Sgarbi, che tra un riciclaggio d’opera e un cachet d’oro (presunti, eh?), ha trovato il tempo per perorarla, e a Nicoletta Colombo che è riuscita a farvi confluire ben 123 opere (che differenza rispetto all’appena inaugurata  mostra di Donghi a Roma, che ne assommerà 34!) e grazie a ciò disegnarne un profilo ordinato e completo. Non è improbabile che la schietta e mai negata adesione al fascismo abbia offuscato la vista sui suoi meriti: se vogliamo affondare il coltello nella piaga, la sua ispirazione coincise sputata con il ventennio (giusto lo anticipò di un paio d’anni) e con la fine del regime si afflosciò, risultando del tutto improprio prolungare nella maturità il suo sbiadirsi negli anni successivi. Funi, peraltro, nutrì un’affezione sincera per la sua epoca, ma la coincidenza che ne derivava con il fascismo non era per forza di prospettiva: per esempio, a diciassette anni si avviò al fronte con entusiasmo (più giovanilmente cameratesco che viriloide), però gli splendidi disegni che restituii del dietro-trincee erano di tregua, riposo e quieto solidarismo, insomma delle forme di intimità. Aggiungerei che nel ritratto di tutte le forme di intimità Funi raggiunse i suoi picchi, rendendo commoventi per semplicità certe scene di desco familiare o di solitudine o femminile operosità (beninteso al modo in cui si usava allora), e persino negli affreschi mitici (che assaporiamo qui in una sala con alcuni cartoni preparatori), come nelle scene dell’Eneide esposte, dove privilegia – di nuovo – la fase del raccoglimento a quella dell’azione.

La sorella fu un’ossessione, più che la sua modella, e in effetti chiamata sovente a interpretare se stessa ed ostentata nel titolo (anche gli autoritratti si sprecano). Se è vero che fu immerso nel suo tempo, è anche vero che in termini stilistici fu uno dei migliori interpreti (o il migliore?) del ritorno all’ordine proclamato da Margherita Sarfatti e che nella sua versione sostanziò nell’incontro fra un classicismo d’impronta rinascimentale (e che purezza cristallina! Per tutti, cito il meraviglioso La terra) e una struttura delle forme che ne faceva un infiltrato di Cezanne nella pittura italiana, solo di rado spinta sino a un vero approdo cubista (ma il grande e parallelo riferimento nel tempo, per temi e stile, sarebbe stato Derain).

Funi attraversò a modo suo le varie correnti: quell’altro gioiello che è L’uomo che scende dal tram propone un futurismo dal volto umano, con una prevalenza della componente plastica su quella dinamica, ma è pure una sorta di estratto delle avanguardie con una certa vicinanza a Picasso. Al realismo magico appartenne per un periodo breve ma assunse nel suo bagaglio un tono di sospensione del tempo che non abbandonò più. Nelle opere mitiche il classicismo si fece più freddo e la cura del colore prese a sopravanzare quella dei volumi. Le pitture murali cui si accennava lo collocano tra i massimi del genere nel XX secolo, e nelle preparazioni ammiriamo quello che rimase il suo talento più puro, il tratto del disegno, che esercitò variamente eccellendo, ad esempio con le sanguigne. E notevole fu l’impressione mentale del dettaglio differenziante, tant’è che quando si cimentò col paesaggio gli bastò lo spazio di pochi rami fioriti per rendere inequivocabilmente riconoscibili la costa ravennate da quella ligure, senza che nemmeno necessitasse chiamare a testimone un edificio.

Achille Funi. Un maestro del Novecento tra storia e mito.

Palazzo dei Diamanti, Ferrara.

Fino al 26 febbraio 2024.

Fra i caratteri distintivi dell’umanità vi è la tendenza a evitare la ripetizione, privilegiando l’innovazione creativa e ciò che è differente. A uno sguardo più attento, però, fenomeni e comportamenti ricorsivi risultano prepotentemente insediati nei fondamenti delle nostre vite, e non solo perché rimaniamo incatenati ai vincoli della natura. Come le stagioni e le strutture organiche nell’evoluzione, si ripetono anche i cicli storici e quelli economici, i miti e i riti, le rime in poesia, i meme su Internet e le calunnie in politica. Su concetti e comportamenti reiterati si basano l’apprendimento e la persuasione, ma anche la coazione a ripetere e altre manifestazioni disfunzionali. Con brillante sagacia, Remo Bassetti affronta un concetto finora trascurato, scandagliandolo nei vari campi del sapere, fra antropologia, letteratura e cinema, per dipingere un affresco curioso di grande ispirazione. Da Kierkegaard almachine learning, dai barattoli di Warhol ai serial killer, dai déjà vu fino alla routine, questo libro offre un’analisi profonda della variegata fenomenologia della ripetizione nel mondo moderno, sia nelle forme minacciose e patologiche sia in quelle che invece assicurano conforto, godimento e, persino, libertà.

Quanto siamo ripetitivi

Anche se prevale un tono leggero e una gradevole vena di humor, la documentazione è solida, gli esempi fitti e illuminanti

Corrado Augias, Il Venerdì

Un trattato, mica bruscolini. Il trattato, infatti, tipo quelli di Spinoza o di Wittgenstein, è un’opera di carattere filosofico, scientifico, letterario (...) E così è. Nel suo trattato Bassetti espone il come e perché dell’offesa.

Francesca Rigotti, Il Sole 24 ore

 

C’è un passo in cui di Bassetti dice che questo è un tema sorprendentemente poco esplorato...Non lo è più da quando c’è questo libro

La conclusione del conduttore di Fahrenheit – Tommaso Giartosio

 

Queste sono le tre ragioni per cui ci si offende:

  1. Hai detto male di me

  2. Hai violato un confine

  3. Non ti sei accorto di me come, e quanto, avresti dovuto

Di |2024-02-09T17:58:43+01:009 Febbraio 2024|3, Ufficio visti|

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