Quanti discorsi si fanno sui carcerati. È giusta la pena? È sufficiente? È violenta? Per capire serve ragionare. Ma anche compenetrarsi in quell’esperienza estrema. Bisognerebbe immaginarcisi in una cella, caro lettore.
E allora immaginati chiuso in un ascensore fermo tra i piani, perché lo spazio non è tanto diverso,e la tua vita poi si è davvero fermata tra quei piani, e quel niente sminuzzato che ti capita oggi si ripeterà domani, e ancora si ripeterà.
Immaginati a vivere questa condizione di inversione dell’onere della prova.Chi conduce un’esistenza normale ha diritto a tutto ciò che non gli è vietato. Tu non hai diritto a nulla, se non ciò che ti è consentito, e devi provare che ti è consentito. Chi cammina per strada può ridere o piangere o battere le mani, senza dovere dare conto del motivo, senza che nessuno gli chieda perché. Ma tra i diritti che tu hai perso c’è anche quello di far capitare le cose senza motivo, il sorriso o il pianto deve pur avere una sua ragione per non essere sospetto, provocatorio, irrispettoso. La creatività è un lusso che appartiene a chi sta fuori, ciò che ti serve, te lo avranno ripetuto più volte, è di-sci-pli-na.
E allora lasci cadere il tuo sguardo sul muro, lasci che il tuo sguardo si pianti sul muro come un chiodo, sguardo da smorzare, come la luce flebile che vagamente rischiara la cella, sguardo declassato, che non può fissare troppo il compagno,’cazzo guardi, non l’agente, il tuo sguardo, ormai inferiore. Tutto il sistema carcerario si fonda sulla superiorità dello sguardo altrui , che può infilartisi addosso, al posto della canottiera, dovunque sei.
Ora ti senti male ma non c’è una mano amica a rassicurarti. Potrebbe essere un disturbo cardiaco o un’infezione, ma è tardi e non è che tu possa disturbare l’agente o il medico di turno per una semplice impressione, se ne parlerà domani. Forse ti aiuterebbe un po’ d’aria. Se ne parlerà domani.
(Fai caso a quante volte usi il ma. Il mondo normale è il regno del se perché di nessun possiamo essere certi che non si realizzerà. Il mondo carcerario è il mondo del ma, tante cose sarebbe forse possibile o, sbilanciamoci, giusto e comprensibile che accadessero ma … L’onda delle tue richieste non si infrangerà contro gli scogli di un totale disconoscimento bensì contro la barriera corallina di una serie di preziosissimi e taglienti ma – il regolamento non lo prevede, la sicurezza non lo consente, l’organizzazione non può tollerarlo – da cui quotidianamente cesellare una collana di frustrazioni. Il regno del se, anche quello abitato dal più disgraziato, è il regno della speranza. Il regno del ma è il regno dell’impotenza.)
L’aria. Qui dentro significa passeggiare in tondo in un cortiletto nel quale il cemento potrebbe quasi morderti i polpacci tanto ce n’è, una strana aria senza odori, ma gli odori poi chi se li ricorda, all’inizio che sei entrato qualcosa distinguevi e ti accorgevi che attorno c’era puzza, adesso non la senti più, forse perché è la tua. E il bello è che quell’ora d’aria la desideri, potresti arrabbiarti ferocemente se te la negassero, curioso vero?, se non ci fossero i bagni nelle celle potrebbero portarti anche a pisciare vicino a un albero, in termini relativi la tua vita se ne gioverebbe, sarebbe pur meglio che aggiungere il tanfo di orina agli altri della cella, e dopo un po’ ti scorderesti che è umiliante, e potresti reclamare anche per quello, che oggi non ti hanno ancora portato a pisciare vicino all’albero, e diresti mi trattate come una bestia, e se pensassi che è preferibile insistere con le buone magari proveresti a scodinzolare.
Adesso vorresti leggere quelle pagine ma non hai con te il tuo libro. Vorresti dire a tua moglie che dopo tanto tempo hai capito ma no è il giorno del colloquio né quello della tua telefonata.
Un’ora alla settimana uno di fronte all’altra, dieci minuti al telefono, questo è ciò che devi far bastare. Ora ricordi un’altra cosa che volevi toccare: le sue gambe. Quanti anni che non lo fai? Uno, due, tre. Tra quanti potrai rifarlo … Uno, due , tre … Sempre se ti aspetta.
È difficile convivere in cella. A quante persone al mondo avresti pensato di concedere la tua intimità? Le tue mutande sporche o la foto di tua figlia, che nascondi sotto il lenzuolo, ti darebbe fastidio che qualcuno la sbirciasse di nascosto. O che qualcuno ti guardi di nascosto mentre la guardi di nascosto. Ma via abituati. Stiamo parlando di gente che ti ci masturbi mentre stanno a pochi metri e magari hanno appena fatto un rutto, cosa ti stai a formalizzare?
È ovvio, si cerca di andare d’accordo. I grandi temi lasciateli a quelli fuori. Il turno per andare al cesso, il turno per pulire il cesso. La qualità della tua vita dipende essenzialmente da questo. Ed è uno dei pochi momenti in cui sei legittimato a dire davvero la tua, per il resto la tua responsabilità e il tuo potere di decisione sono ridotti a zero, la tua giornata pianificata. Non è il caso di lasciarti fare di testa tua, abbiamo visto fuori cosa è successo.
E così trascorrono queste primavere senza fiori, queste estati senza mari. D’inverno, una volta, da dietro le sbarre, hai visto la neve, si scioglieva appena posatasi per terra. Ci hai pensato tutta la notte e siccome eri sveglio facevi più caso al rumore delle chiavi dentro i cancelli.
Qualcosa ti rimane, i sentimenti, i desideri, anzi qualche volta te li trovi messi per iscritto. Perché ogni sentimento o desiderio ha un risvolto cartaceo e burocratico. Il desiderio rimane confinato o inespresso nella tua coscienza oppure diventa una domanda alla pubblica amministrazione.
Così va. Provi a passarti la mano addosso. Astrattamente tempo a disposizione per coltivare i rimorsi ce ne sarebbe anche, ma hai cose più impellenti da fare. Ciò che contemplerai è solo il tuo corpo imbruttito. E la tua memoria, da tempo, è la memoria di ciò che stai perdendo.
Il brano è tratto dal mio libro “Derelitti e delle pene”, uscito 21 anni fa. Ma potrebbe essere stato scritto ieri.
Un libro in tre parti, diverse ma complementari. La prima, la pena pensata, risponde alla domanda “perché punire” e si confronta con le ipocrisie sottese all’attuale sistema. La pena applicata, traccia una minuziosa storia della prigione in Italia, con il supporto di materiali d’archivio, e oscilla spesso tra il drammatico e il grottesco. L’ultima parte, la pena vissuta, è una collezione di brevi monologhi, raccolti dall’autore sulla base di colloqui effettuati nei più importanti istituti di pena del paese: più che resoconto una narrazione, condotta sul filo di una tensione linguistica che mira a restituire nello stile la frammentazione e l’isolamento delle voci ascoltate.
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