Come ti muovi ti fulmino

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La deterrenza, dalle guerre e dal diritto penale al rafforzamento della comunità

Mettiamo che funzioni così. L’ex violento si presenta dalla moglie da cui si sta separando per minacciarla: non gli viene solo inibito di avvicinarsi alla donna ma proibito di mettere piede nel comune, salvo autorizzazione della prefettura per singole trasferte. Il tifoso allo stadio viene scoperto ai controlli con un oggetto contundente o uno striscione razzista: niente più stadio, per dieci anni (solo in parte avviene già col Daspo). Il guidatore con la sua spider sfreccia sull’autostrada a duecento all’ora: il poliziotto della stradale che lo ha fermato riparte direttamente con l’auto che gli ha sequestrato insieme alla patente, e quello non rivedrà né l’una né l’altra prima di tre anni. Allo yacht dove è in corso un festone che tiene sveglio il paese alle due del mattino viene ingiunto dalla guardia costiera di entrare nel porto, dove gli invitati vengono fatti scendere insieme al titolare, cui viene sequestrata la barca per un paio d’anni.

Lo trovereste eccessivo? Non proporzionato? Certo, non deve essere proporzionato, altrimenti non funzionerebbe. Quel che ho esposto rientra nel concetto di deterrenza: cercare di prevenire, e dunque evitare, una condotta minacciando di infliggere al trasgressore un danno maggiore del vantaggio che potrebbe ricavare. Il ragionamento suppone che, conoscendo la sanzione e ritenendo che verrà applicata, la persona si inibisca pensando: ma chi me lo fa fare! Nel diritto contrattuale un esempio di deterrenza sono le penali in caso di inadempimento. Un esempio comprensibile per chiunque: in una vendita della casa in cui la consegna avverrà solo dopo tre mesi dalla firma, le parti possono stabilire che, se dopo quella data, il venditore non sloggia egli debba versare all’acquirente una somma per ogni giorno di ritardo. La cifra dovrà corrispondere grosso modo a quella che servirebbe per pagare un affitto? Niente affatto, deve essere almeno cinque volte tanto se no il venditore potrebbe trovare persino conveniente trattenersi a tempo indeterminato (spesso al momento di fissarne l’importo accade che il venditore così protesti: “ma è una cifra assurda! Tanto non capiterà, me ne andrò per tempo!”, alla quale è facile ribattere: “e che ti importa allora, anche se ci fosse scritto un milione? Tanto non succederà mai!”). Qualcuno di voi penserà: beh, la deterrenza sulla nostra pelle l’abbiamo provata tutti, almeno da bambini. “Se non fai i compiti, oggi non vai dal tuo amichetto”. Attenzione, però: tra i compiti e il mancato pomeriggio a giocare c’è proporzionalità. Spero che tutti voi abbiate avuto genitori così, e nessuno si sia mai sentito così minacciare: “Se non fai i compiti oggi non vai a giocare in cortile per quattro mesi”. Sarebbero stati davvero dei cattivi genitori. Ai bambini bisogna insegnare che tra un obbligo mancato e una pena c’è una proporzione, instradarli a una percezione dell’equilibrio e del senso di giustizia. Come detto, invece, si può davvero parlare di deterrenza quando questa proporzione difetta. E il caso del bambino dimostra che a volte ci sta bene la deterrenza, e altre no. Negli esempi che ho fatto prima, secondo me, ci starebbe bene, ma per capire perché cerchiamo di comprendere dove non calza affatto.

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Il settore in cui il termine di deterrenza si trova più frequentemente ed espressamente impiegato è la politica internazionale, in due casi specialmente. Il primo è quello della reciproca deterrenza, tipicamente quella nucleare, ovvero puntarsi l’un l’altro i missili contro, di modo che ciascuno sia dissuaso dal lanciare il primo per non essere distrutto a propria volta. Siamo dunque fuori dal campo dell’autorità e dell’asimmetria di potere e invece in quello paritario della belligeranza, sia pure di un singolare bellicismo dato che l’estremismo radicale del conflitto (ho qui uno strumento con cui distruggo il tuo stato con tutti i tuoi cittadini) dovrebbe partorire l’assenza di combattimento. Però quando la deterrenza è duplice o addirittura molteplice (missili incrociati puntati contro fra vari attori nucleari), e per giunta la sproporzione raggiunge il grado terminale della distruzione assoluta, non sembra davvero una partita che valga la pena di giocare. Oltre al fatto che l’imprevedibilità dell’esito si incrementa con il numero di protagonisti, l’evoluzione della tecnologia militare si sposta dall’obiettivo costruiamo missili più potenti, all’obiettivo facciamo in modo di deviare i loro missili, che gli esempi più recenti in Medio Oriente hanno dimostrato già efficiente. Così, nel momento in cui uno degli stati che possiedono questa forma di potenza balistica ritenesse, a torto o a ragione, che il suo sistema di difesa è ben rodato e quello degli avversari meno, potrebbe avere la tentazione di sferrare il colpo.

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La seconda forma di deterrenza nei rapporti internazionali fra stati sono le sanzioni economiche. Per quanto se ne possa pensare bene in linea di principio, bisogna ammettere che gli esiti recenti, specialmente nei casi più importanti, non sono stati troppo efficaci. I punti critici sono molti: sul piano morale, il rischio che le conseguenze ricadano su cittadini incolpevoli, e già vessati internamente, senza che ne scaturisca una reale possibilità di favorire un cambio di governo o di regime; nonché il peso della valutazione geopolitica nel decidere se colpire uno stato e un altro invece no. Dal punto di vista pratico, l’eccessiva facilità con cui vengono aggirate (il caso della Russia ne offre esempi grotteschi). In effetti, e questo vale per ogni forma di deterrenza, il soggetto che si vuole dissuadere non soppesa solo gli svantaggi della sanzione rispetto ai vantaggi dell’azione ma anche la probabilità che la sanzione venga applicata (o che comunque produca effetti rispetto al caso contrario). Ogni sanzione fallita, nel campo della deterrenza, produce l’effetto contrario: è una pubblicità per l’azione, e non per il suo contrasto. Le sanzioni economiche hanno senso solo se colpiscono nello stesso modo chi le rende vane.

La vera patria della deterrenza potrebbe apparire il diritto penale: la ragione per cui puniamo – questa una delle giustificazioni più accreditate, forse la principale – è per prevenire i reati. Perché non dovremmo scegliere di usare il tempo per una sbornia invece che per una rapina se non fosse che nel primo caso ce la caveremmo con un mal di testa invece che con cinque anni di carcere? Alla teoria della deterrenza le questioni morali interessano fino a un certo punto, e in fondo quel che è stato è stato: la giustizia non servirebbe (come invece per la concezione retributiva) a riparare i torti. Per chi crede nella retribuzione, ogni applicazione della pena è un successo, poiché il colpevole sconta il crimine che ha commesso; al contrario, chi crede nella deterrenza vede in ogni applicazione della pena un fallimento, perché in quel caso la dissuasione non ha avuto effetto.

Il problema di fondo, però, è che la deterrenza esige un’assenza di proporzione, esattamente il contrario di quel che immaginiamo per il sistema penale, nel quale (in una versione idealizzata) il colpevole ha quel che si merita, non di meno ma neppure di più. Se invece giudichiamo il diritto penale in termini di efficienza, cioè secondo i crimini futuri che riesce a impedire, è chiaro che sarebbe sempre meglio abbondare: non a caso il suo punto d’arrivo coerente è la pena di morte. La pena capitale, tuttavia, potrebbe concernere quei crimini orrendi che presuppongono un delinquente particolarmente motivato oppure con problemi psichiatrici. È difficile pensare che una figura di questo tipo si ritragga davanti alla pena di morte e consideri invece accettabile trascorrere venti anni in carcere. Semmai è chi riceve dal reato un vantaggio piccolo o medio il soggetto più impressionabile da una deterrenza severa. A rigore, dunque, non solo la prevenzione suggerirebbe che la pena debba essere sproporzionata; essa implicherebbe che l’intero sistema punitivo fosse sproporzionato, focalizzando le sanzioni più severe sulle condotte meno gravi, nelle quali davvero può sortire effetto la dissuasione. Ovviamente a nessuno verrebbe in mente di applicare la deterrenza sino a queste estreme conseguenze, perché nella razionalità penale c’è qualcosa che sfugge al puro concetto di utilità. Se davvero lo scopo della pena fosse un’utilità generale, perché non colpire i figli del trasgressore (come fa, dal suo punto di vista proficuamente, la deterrenza mafiosa?). La gente si ribellerebbe, poiché ciò ripugnerebbe al comune senso di giustizia. Infatti, non è l’utilità a creare la giustizia bensì la giustizia a condizionare l’utilità.

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Chiarito dunque che non è ammissibile fondare il diritto penale sulla deterrenza, torniamo agli esempi iniziali. Certo, nelle forme più estreme hanno una rilevanza penale ma per lo più sono comportamenti che si fermano una soglia prima, o perché vengono repressi sul piano amministrativo o perché, dal punto di vista concreto, sfociano in sanzioni lievi e tardive che non dissuadono in alcun modo dal compierli. Hanno una gravità differente fra loro, e però il danno che procureranno non è facilmente prevedibile. Essi si collocano in una sfera di comportamenti antisociali che mettono in pericolo la vita o l’equilibrio delle persone e/o esprimono un totale disinteresse per la comunità. Cosa hanno in comune? Sono situazioni in cui emergono la prepotenza e la prevaricazione. Nessun reato dovrebbe essere commesso ma spesso i contesti che li contengono sono complicati da giudicare, e non di rado il reato è la risposta sbagliata a un bisogno o un problema realmente esistente. In chiave psicoanalitica pure insultare un giocatore di colore o mettere le mani addosso alla partner avrà una spiegazione, e anche quello di lanciare l’auto a 200 all’ora. Ma in concreto non risolvono nessun problema, e solo lo creano ad altri. I loro potenziali autori sono passibili di dissuasione se la conseguenza a loro carico sarà quasi certamente enorme. Proprio perché le loro azioni non ricadono nel sistema punitivo tipico, regolato dal diritto penale, è accettabile che per combatterle alla radice si ricorra alla sproporzione tipica della prevenzione (la conseguenza è grave, e però non è il carcere, e neppure la rovina economica).

Per chiarire la sottile (eppure profonda) linea che corre tra la deterrenza nel sistema penale e la deterrenza nelle condotte antisociali (passatemi il brutto nome, che ricorda gli espedienti dei regimi totalitari per criminalizzare il dissenso; ma io non sto parlando di condotte politiche e voglio tenere esattamente fuori dal campo criminale queste condotte antisociali), prendiamo le due espressioni verbali che messe insieme costituiscono la grammatica più rappresentativa della deterrenza penale nell’ultimo trentennio: la tolleranza zero e il vetro rotto. La prima indicava l’argine da porre alla microcriminalità, perseguendone senza pietà e indugio i piccoli episodi. Il secondo offriva l’immagine iconica della finestra frantumata da un balordo come modello di quel che andava immediatamente represso per evitare che l’emulazione e il degrado aprissero le porte a un più esteso vandalismo e, per quella via, a forme sempre più insidiose di criminalità.

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La teoria può essere presa per molti versi, alcuni anche ottimi: ma certo è che è stata coltivata in senso politico e classista, lasciando alla criminalizzazione penale e al carcere il compito di risolvere la questione sociale della marginalità più disperata e la gestione amministrativa della sicurezza. Il vetro rotto del resto evoca un certo tipo di illecito, del tutto lontano da quella criminalità dei colletti bianchi capace di generare un danno sociale anche maggiore, e anzi di grande rilievo nell’innestare il circuito sociale negativo che porta i disgraziati a rompere i vetri. La deterrenza è un approccio grossolano per puntellare il diritto penale. È invece un buon approccio per stroncare una serie di comportamenti che minano il patto civile di comunità o, pur indirizzandosi verso una sola specifica persona, attaccano capisaldi di civiltà che in un dato momento necessitano di essere affermati con vigore per consolidarsi. Per questo mi pare corretta la definizione di condotte antisociali. Per impedire che venga utilizzata in modo distorto, ne andrebbero esclusi gli atti che si risolvono in manifestazioni di pensiero, le forme altrimenti legittime di contestazione dell’autorità e le azioni compiute in uno stato di necessità. Le sanzioni deterrenti, infine, non dovrebbero mai sfociare in pene detentive e, se contengono una parte pecuniaria, l’esborso non dovrebbe mettere in pericolo la dignitosa sussistenza del sanzionato. Infine, le condotte andrebbero accertate (a mezzo di procedura abbreviata) ma con esecuzione provvisoria anticipata in caso di flagranza.

Benché lo scopo sia preventivo, non si può negare che l’esito finale sia punitivo, ancorché su un piano diverso dal diritto penale. Ci sono paesi, come quelli scandinavi o il Giappone, in cui un sistema di questo tipo sarebbe assurdo: la pressione sociale lo renderebbe inutile, perché il giudizio negativo della comunità (con la perdita di reputazione che ne consegue) è una dissuasione sufficiente. Dobbiamo invece constatare che ad altre latitudini e paesi (l’Italia certamente) tale pressione non funziona o è sostanzialmente assente (in quale nazione un automobilista fa i fari a quello che corre all’impazzata nella corsia contraria per segnalargli che è presente oltre la curva una pattuglia della polizia?): la minoranza che viola le regole di convivenza in alcuni luoghi diventa quasi un modello di emulazione piuttosto che un soggetto da stigmatizzare. In questi luoghi la comunità è fragile e per ricompattarla bisogna ricorrere a un sistema differente. D’altronde, non dimentichiamo che la pressione sociale dentro comunità coese scivola sovente in una spinta conformistica più estesa che soffoca e comprime le identità personali.

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Questa dunque la mia proposta. Gli esempi che ho proposto al principio non sono certo esaustivi e tanto meno incontroversi, e ciascuno può immaginare quelli che ritiene più congrui. Nel frattempo, in alcune forme di sanzioni amministrative l’idea della deterrenza si va facendo strada in forme più o meno originali. Per esempio, in alcuni paesi del nord Europa le multe stradali non vengono erogate in cifra fissa ma in proporzione al reddito del trasgressore (evitando così che il benestante se ne disinteressi). In Italia, costituisce una forma di deterrenza la sanzione applicata al condominio per le violazioni degli obblighi di raccolta differenziata. In questo modo il controllo sociale viene spostato verso il basso: ancora più del comune che persegue le sue politiche ecologiche saranno gli abitanti del fabbricato a tenere d’occhio chi non adempie. Persino la responsabilità civile comincia ad ammettere il principio di deterrenza: alcune sentenze hanno aperto la porta a una componente aggiuntiva del risarcimento a titolo di deterrenza (che a mio parere andrebbe però destinata non ad arricchire la vittima oltre il danno, ma versata a un fondo di sostegno per le vittime della stessa tipologia). Infine, e guardando avanti, la deterrenza attraverso sanzioni sproporzionate dovrà applicarsi alle imprese multinazionali che sfidano la comunità, ad esempio sottraendo con sotterfugi fiscali le risorse che dovrebbero lasciare sul territorio.

Fra i caratteri distintivi dell’umanità vi è la tendenza a evitare la ripetizione, privilegiando l’innovazione creativa e ciò che è differente. A uno sguardo più attento, però, fenomeni e comportamenti ricorsivi risultano prepotentemente insediati nei fondamenti delle nostre vite, e non solo perché rimaniamo incatenati ai vincoli della natura. Come le stagioni e le strutture organiche nell’evoluzione, si ripetono anche i cicli storici e quelli economici, i miti e i riti, le rime in poesia, i meme su Internet e le calunnie in politica. Su concetti e comportamenti reiterati si basano l’apprendimento e la persuasione, ma anche la coazione a ripetere e altre manifestazioni disfunzionali. Con brillante sagacia, Remo Bassetti affronta un concetto finora trascurato, scandagliandolo nei vari campi del sapere, fra antropologia, letteratura e cinema, per dipingere un affresco curioso di grande ispirazione. Da Kierkegaard almachine learning, dai barattoli di Warhol ai serial killer, dai déjà vu fino alla routine, questo libro offre un’analisi profonda della variegata fenomenologia della ripetizione nel mondo moderno, sia nelle forme minacciose e patologiche sia in quelle che invece assicurano conforto, godimento e, persino, libertà.

Quanto siamo ripetitivi

Di |2024-09-13T18:34:00+01:0013 Settembre 2024|5, Limite di velocità|

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