Non fosse già stato usato, “Gli ultimi giorni dell’umanità” avrebbe potuto essere una buona alternativa titolistica a “Microfictions”, trattandosi di un volume che tratteggia la nostra specie come avvolta in una profonda crisi etica, priva di distinzioni sociali nella disperazione e di ogni speranza di salvezza- né a dire il vero c’è accenno alcuno al fatto che sia mai esistita un’Età dell’Oro. Più turpe che cupo, e comunque con l’acre pessimismo temperato in un grottesco ricco di sfumature comiche, l’opera di Regis Jauffret è composta di ben cinquecento racconti, tutti all’incirca di una pagina e mezzo, con uno stile scabro e di brevi periodi in mezzo ai quali si affaccia frequentemente una metafora fulminante e altrettanto secca. La caratteristica formale più interessante, una vera cifra d’autore che mai avevo incontrato, è il modo in cui viene utilizzato il discorso diretto virgolettato, rappreso in massimo tre o quattro frasette per racconto che spesso sembrano provenire da una voce esterna indefinita, interrompono in modo coerente eppure straniante una narrazione in prima persona e quasi fungono da sottotitoli dentro la pagina. Il polo letterario di tensione è la frizione fra il taglio minimalistico e la deriva esagerata e di solito truculenta che conclude il breve sviluppo del racconto. Jauffret vuol dar conto a suo modo di una realtà psicologica nascosta, e immaginare che essa possa tradursi in azione portata alle estreme conseguenze, prima di quei paletti di inibizione che di solito ne ammortizzano o impediscono l’esplosione; e ne descrive la curva alternando nel complesso dei racconti i punti di vista delle vittime e degli aguzzini. La storie a volte sono fotografano l’istante, più sovente sono una sorprendente condensazione biografica del personaggio, focalizzata sul coup de theatre conclusivo. Ancor più del legame tra morte e sessualità, che pure gioca un ruolo centrale, il tema ricorrente è forse la perversa competizione insita nella genitorialità e nel rapporto filiale. Jauffret- vincitore con questo volume del Goncourt 2018 sezione racconti- sembra un Houllebecq meno stratificato ma altrettanto ironico, che con più radicalismo dice: ora vi mostro davvero come starebbero le cose in questo mondo se la gente agisse come desidererebbe fare, o se gliene si presentasse l’occasione. Ma se è inevitabile che cinquecento racconti non possono riuscire tutti bene, alla lunga la parte più debole diventa proprio quella dei salti eccessivi e cruenti, che già dopo una cinquantina rende il gioco della violenza prevedibile e qualche volta francamente sgradevole. Anzi, certi esiti paiono necessità tardo-adolescenziali di stupire attraverso la scabrosità. Secondo me la vera ragione per non perdersi questo libro sta nei racconti che sfumano invece di esplodere, molti dei quali legati a coppie consapevoli dei limiti, del declino e della ripetizione eppure profondamente resilienti e inventrici di intimità. Il Jauffret lirico ed elegiaco, insomma, è meglio del Jauffret torbido e sepolcrale. Un paradosso che costituisce il cinquecentounesimo racconto.
Regis Jauffret
Microfictions
Traduzione di Tommaso Gurrieri
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