Sei in orfanotrofio, come puoi illuderti di essere una persona speciale? I tuoi genitori ti hanno messo alla porta oppure una disgrazia se li è portati via, o tutte e due le cose, e le ultime parole che ti ricordi di tua madre sono Chiudi gli occhi, un’avvertenza del genere fai attenzione quando vai fuori, ma sei già fuori lì con tua madre, e quelle parole sono al tempo stesso una protezione e un verdetto di condanna. Siamo all’inizio degli anni Cinquanta e la salvezza di Beth Harmon, rispetto agli altri bambini, è che lei si imbatte nell’evidenza del suo essere speciale, e non nelle aule scolastiche ma nel sottoscala dell’istituto, dove un silenzioso, cupo e malportante-gli-anni custode se ne sta curvo su una scacchiera, e per l’altrettanto cupa e silenziosa Beth è la rivelazione di un destino. Il custode diventa il suo severo maestro, l’allevatore di un genio che già a nove anni comincia a bersi la difesa siciliana e le aperture dei campioni, sviluppando le partite nella sua testa. Beth restringe la cerchia dei conforti esistenziali ai pezzi della scacchiera, alla confidente e sboccata Jolene e ai tranquillanti somministrati ai bambini per tenerli quieti, poi revocati per rivolgimento sociale dei metodi educativi: e però lei ne è diventata dipendente, anche perché le facilitano la proiezione mentale sul soffitto di alfieri e torri che muovono a scacco. Nonostante alcune prove strepitose della genialità di Beth, che è capace di battere otto ragazzi di una scuola superiore giocando contemporaneamente le otto partite, l’arcigna direttrice la frena e inibisce, sino a quando non arriva una strana coppia di genitori adottivi. Dalla sua personale intraprendenza e determinazione e dalle vicende di quell’adozione, dal legame particolare che Beth stabilisce con la mamma adottiva, Beth Harmon spicca il volo. Qui comincia il suo racconto di formazione plurima che comprende: l’ascesa di campionessa, l’amplificarsi dell’alcolismo quale ulteriore dipendenza tossica, la maniacalità dell’ossessione (vincere a scacchi, ancor più che giocarci) ma anche l’emancipazione da essa attraverso la scoperta della sessualità. La seguiamo così lungo gli Stati Uniti, e poi Parigi, sino alla meta finale della Russia nel 1967, con i suoi scacchisti sublimi, fra i quali l’imbattuto Borgov che pare un signorile capo del KGB, e la pressione ambientale intorno che cerca in Beth un simbolo vincente dentro la guerra fredda (rievocando qui un episodio storico, il match del 1972 tra Fischer e Spassky, che rientrava quotidianamente tra le prime cinque notizie dei telegiornali, anche europei).
La produzione di Netflix segna una svolta antropologica, e siccome nessuno da quelle parti ha ancora spiegato che i buoni e i cattivi possono essere equamente divisi anche all’interno di uno stessa serie, passa senza soluzione di continuità dalla sua sfilata di trame criminaloidi nelle quali il più gentile ti taglia la gola dal lato che hai scelto tu a questa parata di personaggi tutti sversi d’umore/ma gratta gratta la scorza/ oh Dio Beth/ ebbene sì sono d’animo nobile, e sceglie coraggiosamente di trattare una prova agonistica non troppo tagliata per la televisione. Dove la deviazione lascia il segno è nella parte formale che, specialmente nella fotografia e nel suo tocco di colori tenui, supera ampiamente la professionalità della produzione, sfociando in potente espressione artistica; nei montaggi cinematografici è frequente che il personaggio salga una scala e ne prosegua una che si è spostata avanti negli anni, o che la stessa permutazione temporale avvenga in una camera da letto – siamo quasi al manuale del montaggi: ma la capacità di farlo in momenti sorprendenti e l’equilibrio perfetto di invisibilità/visibilità del passaggio sono veramente notevoli. Ania Taylor-Joy ha una personalità magnetica, una gamma sottile di sfumature espressive che, proponendo una specie di narrazione in soggettiva (non esistono praticamente scene senza la presenza di Beth) fanno della miniserie un one-woman-show.
È l’impianto narrativo a mostrare debolezza: non un rapporto personale viene scavato psicologicamente in modo credibile, i personaggi (cioè, i principali comprimari), piuttosto piallati, agiscono per sequenze ripetitive e sembrano raccattati da Ikea e montati con gli stessi pezzi, la trama se ne sbarazza e riappropria con eccessiva disinvoltura, la sceneggiatura ha qualche rara impennata ma nel complesso i dialoghi sono debolucci; la traslazione dal libro sarebbe forse venuta meglio in un film, evitando qualche lungaggine (che però viene discretamente assorbita dalla bravura della Taylor-Joy e dalla qualità dell’estetica) e, nonostante la vicenda parta dell’orfanotrofio, l’atteggiamento ideologico è quello americano del successo, pur con il riconoscimento che i falliti offrono un apporto attraverso il gregariato. Ma d’altronde La regina di scacchi è un film americanissimo, un film d’azione, tanto che il vero clou delle partite a scacchi (le cui regole rimangono sconosciute ai profani nonostante le sette puntate) è la pressione sul pulsante che interrompe e fa ripartire il tempo per ciascun giocatore, prima e dopo le sue mosse. La regina di scacchi è alla ricerca costante di un riscontro fisico dentro la partita – dalla stretta di mano iniziale e finale al rovesciamento orizzontale del pezzo come segno di resa o allo speed-motion delle sequenze di gioco – molto più fisico intorno agli scacchi che nelle stanze domestiche o per strada. All’ultima puntata mi sono reso conto che si trattava di una versione scacchistica di Guerre Stellari: quando c’è un arrivano i nostri, telefonico sì, ma sul taglio di Harrison Ford che irrompe sulle astronavi che braccano Skywalker; e soprattutto quando Beth sembra perduta e nel suo estremo sforzo di visualizzazione interna non ci sorprenderemmo di ascoltare: Usa la forza Luc!, e naturalmente una musica imponente, militaresca e risolutiva che si abbatte sulla scacchiera. E onestamente fa un effetto del tutto travolgente, mozzafiato, commovente e risucchiante- perché da quando il mondo è mondo, se il cinema americano è fatto bene, finisce sempre con un groppo in gola, per quante critiche uno abbia disseminato sul taccuino.
La regina di scacchi
Scott Frank
Votazione finale
I giudizi
Perfetto
Alla grande
Merita
Niente male
Né infamia né lode
Anche no
Da dimenticare
Terrificante
Si salvi chi può
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