Possiamo essere puniti per un fatto che hanno commesso altri, oppure impediti a esercitare un diritto perché c’è il rischio che altri abusino?
Lo spunto più generale di riflessione lo offrono le misure di contenimento del Covid, e più precisamente la strategia comunicativa che al riguardo circola nel nostro paese (e non solo nel nostro). Nei discorsi dei decisori si è fatto spesso balenare, nemmeno troppo implicitamente, che le restrizioni hanno da essere più severe perché sono in agguato pochi irresponsabili che le pervertirebbero. Si deve tornare a casa alle dieci per colpa dei ragazzi che a quell’ora si assembrerebbero sulle panchine con una birra. Non si può andare a trovare un genitore che vive in un’altra regione perché qualcuno certo ne approfitterebbe per andare a rimorchiare. E così via.
Si tratta di una punizione o di un impedimento? Una via di mezzo. Siccome riguarda il presente e il futuro dovremmo dire che si tratta di un impedimento. Ma dato che viene spesso rimarcato (con una certa esagerazione) che i contagi attuali sono ancora parenti dei contagi che alcuni scalmanati avrebbero procurato in estate, si tratta anche di una punizione. Siamo impediti per una sorta di punizione collettiva, coincidente con la prevenzione resa necessaria dell’inaffidabilità di pochi. Quel che è certo è che non si tratta di una disciplina organizzativa. Un cinema ha una capienza, e quando si è esaurito il numero di posti, io non posso entrare perché il mio specifico accesso metterebbe in pericolo la sicurezza: tale è il senso di una norma organizzativa, per la parte in cui proibisce. Al contrario, se passeggiassi dopo le dieci di sera solo per prendere aria non inciderei in alcun modo sulla sicurezza. Si potrebbe eccepire che vi incido negativamente perché, insieme agli altri che si comportano come me, contribuisco a moltiplicare i controlli, e quindi a renderli meno agevoli. Ma, se applicassimo su larga scala l’idea che le libertà vadano concesse solo nella misura in cui sono compatibili con il numero di controllori sul loro buon uso, imboccheremmo un sentiero pericoloso.
È sorprendente che la maggioranza delle persone accetti tutto ciò come un fatto piuttosto normale, nonostante rappresenti una notevole rottura dentro un sistema liberale. Prima di domandarci se sia tollerabile una forma di ricaduta normativa su di sé delle azioni altrui, torniamo alle strette punizioni della categoria “adesso ci rimettete tutti”. Esistono due ambiti in cui sono frequenti.
Il primo è quello scolastico, specie per le scuole inferiori. A chi non è capitato di vedersi confinato in aula durante l’intervallo o di ricevere compiti a casa in sovrabbondanza perché alcuni compagni avevano trasgredito le regole? Idealmente, possiamo leggere questa prassi come un mezzo per instaurare il senso di responsabilità negli studenti. Più in concreto, si presenta sovente come una strategia per evitare che un cattivo esempio prenda piede nella classe o una scorciatoia per mantenere la disciplina.
Il secondo è quello degli eserciti di occupazione, che – come accadeva in Italia per stroncare la resistenza partigiana – rispondono agli attentati con delle rappresaglie qualora i colpevoli non vengano indicati o non si presentino spontaneamente (una certa analogia sussiste con le vendette “trasversali” che le organizzazioni criminali compiono verso i parenti un pentito).
Si tratta ovviamente di esempi abnormi, uno per difetto e l’altro per eccesso, rispetto alle misure di contenimento pandemico; eppure di quest’ultime mettono in evidenza le due caratteristiche più perniciose: l’infantilizzazione, dato che le misure trattano i cittadini come una scolaresca; e l’antagonismo sul territorio, proprio di una forza di occupazione quale agli occhi dei cittadini è una classe politica che con loro non riesce a fondersi. Potremmo dire che le misure di contenimento sono fragili proprio in quel che dovrebbe costituirne l’essenza, e cioè la creazione di un noi. In effetti, l’insegnante scolastico e l’ufficiale dell’esercito di occupazione avvertono la necessità opposta di mantenere una distanza (si rivolgono a un voi, cercando di orientarlo in modo costrittivo). I governi democratici, al contrario, avrebbero la necessità di integrarsi in un noi che li comprenda, ottenendo grazie a ciò un maggiore consenso, anche nell’interiorizzazione delle norme. E la collettivizzazione della pena o dell’impedimento non è il modo migliore per sollecitare questo noi.
Questo vuol dire che in una democrazia mai dovrebbero ricadere su qualcuno effetti giuridici che non siano strettamente legati alle sue azioni (o al massimo alle sue omissioni)? In realtà, la monade che agisce isolata, impermeabile alle azioni degli altri membri della comunità, è un’assurdità concettuale. In termini amministrativi, trovo che sarebbe un esperimento molto interessante quello di socializzare, in certi contesti, le azioni individuali.
Un esempio viene fornito dalle sanzioni che alcuni comuni applicano all’intero condominio in caso di violazioni delle regole sulla raccolta differenziata. Siamo, in tal caso, ben lontani dalla fiducia riposta nella “delazione” del vicino di casa. Si suppone che il condominio sia in grado, entro certi limiti, di porsi come comunità auto-organizzata, e assumere una responsabilità che assorbe quella del singolo.
Possiamo immaginare molte forme di impegni assunti in volontaria comunione di responsabilità, sempre che dal riconoscimento di essere gruppo i partecipanti ricevano anche vantaggio. Prima che le dichiarazioni dei redditi diventassero nella sostanza automatizzate (presto lo saranno anche di diritto), si poteva immaginare che per renderle più fedeli sarebbe stato utile farle presentare congiuntamente a persone che si rendessero reciprocamente garanti e responsabili, premiando l’accorpamento con una riduzione degli obblighi documentali. Oggi, nel campo edilizio, sarebbe un buon punto di equilibrio accettare le dichiarazioni unilaterali di inizio attività solo se “controfirmate” da altri cittadini che si rendono responsabili delle trasgressioni inerenti.
Le misure per la pandemia potrebbero essere un laboratorio sperimentale per un simile cambio di mentalità (ad esempio nelle norme sulle attività commerciali), che segnerebbe l’avvicinamento a una forma di democrazia partecipativa: non quella deliberativa, di cui solitamente si parla, e non perché io la respinga ideologicamente. Ma è troppo comodo risolvere la partecipazione solo nella co-decisione, e credo che ad essa si potrà pervenire solo se e quando avremo imparato ad agire collettivamente nel campo dell’amministrazione (ho affrontato integralmente la questione nel libro Cosa resta della democrazia).
Prendersi carico reciprocamente gli uni degli altri e accettare dei vincoli è la base di una comunità solida, ed è il massimo grado di responsabilità (e significa essere responsabili insieme agli altri, e non a causa di altri. È un atteggiamento attivo non una servitù). Ma con questa realistica utopia i discorsi pubblici attuali non c’entrano proprio nulla.
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