Ma è colpa del politicamente corretto pure se abbattono le statue? E poi, è davvero una colpa abbattere le statue? È vero, non ha senso offendersi con la storia, bisogna a volte cercare di cambiarne il corso, e tuttavia è difficile riuscirci se con la memoria di quella storia non si fanno i conti sino in fondo. Nemmeno si può però pretendere che i vincitori, oltre a scrivere la storia, installino (loro o chi li celebrò) i propri busti in mezzo alla strada per l’eternità. Oggi capita di frequente che si rifiuti l’intitolazione di una via a un personaggio immeritevole. E se avesse piantato la propria effigie quando il suo seguito era numeroso ce lo dovremmo invece tenere com’è? Il suo torto era di stare dalla parte sbagliata o di non avere sotto mano un marmista di fiducia?
Del resto, la fine del comunismo oltre cortina è stata una storia di caduta, prima che di muri, di statue, 5500 parrebbe (si ricorda uno spettacolare trasvolo di una nell’ex Germania Est nel film Goodbye Lenin). (…)
La statua contribuisce a rendere vivo lo spazio pubblico e il dibattito che lo anima. Quando diventa un elemento di frattura comunitaria, è inevitabile che lo spazio pubblico venga «ristrutturato» per ricomporre e unire, nei limiti in cui si può. Nella statua del generale Lee non sono solo i neri a non riconoscersi bensì tutti i cittadini bianchi che solidarizzano con la lotta per l’eguaglianza.
Per questo, bisognerebbe separare l’evoluzione dello spazio pubblico dalla coltivazione della memoria: e non distruggere le statue ma conservarle nei musei, perché la loro elevazione racconta un pezzo di storia, e anche quando ci ripugna dobbiamo avere il coraggio di esporlo se vogliamo continuare a comprenderlo.
Non va bene però che la ripugnanza si estenda a chi rappresentava l’opposizione al corso della storia nella quale non ci si riconosce. Così è accaduto…
Brano estratto dal paragrafo “Cancellazioni della storia”, nel capitolo 8, “L’offesa diffusa. Il politicamente corretto”.
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