C’è un profilo dell’offesa che viene spesso trascurato da chi sermoneggia su come farsela scivolare addosso. La maggior parte delle volte, non ci sentiamo offesi da un risultato ma da una procedura. Se dopo l’azione che ci ha offeso avessimo il potere di dire: no, aspetta, questa scena non è venuta bene, rifacciamola da capo, ora ti dico di cosa avevo bisogno,e produrre realmente quest’effetto, in quel momento preciso il risultato diverso non ci interesserebbe più. Questo è un fattore paralizzante, una volta che il circuito dell’offesa si è messo in moto. L’espediente narrativo che Eduardo adotta per risolvere la crisi è di fargli apprendere dalla figlia che la moglie è offesa e per quale ragione; e nella richiesta finale a Rosa, buttata lì casualmente da Peppino, di rifare uno di quei giorni i maccheroni alla siciliana come solo lei sa fare, altro che la nuora con la quale si era speso in tutti quei complimenti per metterla in buona luce col marito, ma erano troppo stufati, e il sugo no, non era compatto, eh già Rosa, poi mi era uscito di mente e non te l’avevo detto.
Ma noi altri, che non possiamo contare sul deus ex machina previsto da una sceneggiatura, dobbiamo affidarci alla trasparenza delle intenzioni, e alla chiarezza immediata nell’espressione del disagio, tirare subito il filo prima che scappi di mano, fare dell’offesa un atteggiamento attivo e parlare in modo diretto, e se è vero che non si può girare di nuovo la scena fare in modo che il film successivo venga meglio, o decidere seriamente se quel che ci si è rivelato è che vogliamo cambiare casa di produzione. Nelle relazioni affettive il giudizio di verità non ha tutta quest’importanza. Quel che conta…
Brano estratto dal paragrafo “Ma vale davvero la pena di offendersi?”, nel capitolo 11, “In difesa (parziale) dell’offesa”.
Scrivi un commento