Uno spettro si aggira per il mondo: il politicamente corretto. Dagli Stati Uniti, parrebbe, si sta lentamente spostando per il globo, e recentemente due piccoli casi hanno acceso i riflettori sul nostro paese: la parodia dei cinesi fatta da Scotti e Hunziker, le successive scuse e la tirata feroce dei comici Pio e Amedeo, con tanto di rammarico che non si possa neppure sfottere qualcuno chiamandolo ricchione.
Quel che rende problematico parlare del politicamente corretto è che, tecnicamente, non esiste: vale a dire che non c’è persona al mondo che si definisca politicamente corretta e tanto meno è reperibile una sua coerente teorizzazione positiva, o qualcosa corrispondente a un manifesto. Politicamente corretto è un’espressione utilizzata dai suoi detrattori per squalificare una serie variegata di revisioni ideologiche, nuovi costumi linguistici o richieste appartenenti alla sfera morale, per lo più riconducibili a questioni di genere e di etnia, e biasimate come pericolose compressioni della libertà di espressione.
Sul Wrog mi sono occupato frequentemente del tema (ad esempio in questo sforzo di definizione) e delle sue diramazioni laterali, e a tutto questo ho dedicato un capitolo del mio recente libro Offendersi. Eppure sento la necessità di tornare sull’argomento per il disagio che mi provoca la scorrettezza del dibattito, che tende a fare di tutt’erba un fascio (e non di rado forza la verità degli episodi).
Voglio ricordare una volta di più che le origini del politicamente corretto si sostanziavano in uso più gentile del linguaggio, a tutela della sensibilità di categorie marginali, oppure offese dalla storia, o ancora oggetto di prevaricazione. L’assunto era che il linguaggio non si limita a descrivere la realtà ma contribuisce a costruirla, e che avversare nello spazio pubblico l’uso di certe espressioni colonialistiche, sessiste, razziste o spregiative sarebbe stato, contemporaneamente, un modo per liberare individui da etichette e stereotipi, un messaggio di inclusione, un raffreddamento dalla violenza verbale e una stampella per l’adozione di provvedimenti pratici che seguissero la rivisitazione nominalistica (purtroppo quest’ultimo punto è ad oggi quello più fallimentare).
Gli dai un dito, e si prendono tutta la mano, così potrebbe sintetizzarsi l’atteggiamento veementemente maturato a destra, e in modi più composti in una porzione non indifferente della sinistra liberale. Alzano la cresta. Ecco che, partendo dal principio (sacrosanto) che a offendere non sono solo le parole, donne, neri, gay e minoranze sparse cominciano a porre altri interrogativi, affatto peregrini: certe forme di narrazione, comprese quelle apparentemente più innocenti, tipo le fiabe disneyane, non continuano a tramandare modelli di dominio patriarcale o razziale? Le statue di personaggi che hanno spinto la storia dalla parte sbagliata continuano a rappresentare la comunità abbastanza da restare al centro delle piazze? Personaggi dello spettacolo che hanno abusato in modo disgustoso della propria posizione non meritano esecrazione pubblica, come pubblica è la loro gloria? Non è una forma di neocolonialismo lo sfruttamento commerciale dei costumi che definiscono l’identità di un popolo? I luoghi di formazione, come l’università, non svolgerebbero la loro funzione preoccupandosi anche di educare al rispetto del diverso? Le culture diverse da quella occidentale non saranno forse sottorappresentate nel panorama artistico?
Naturalmente, il fatto che le domande non fossero peregrine, non vuol dire per forza che le prassi di inversione con cui si cerca di rispondervi siano giuste: anzi, alcune sono francamente idiote e portano nella direzione opposta alle premesse. Certo che la tolleranza non passa dalla chiusura nelle proprie identità ma dalla loro contaminazione; che per criticare il processo storico non devi cancellarne le tracce; che la morale e il diritto si fondono e confondono nelle teocrazie; che la presunzione d’innocenza e la possibilità del perdono valgono anche per i maschi bianchi; che il valore dell’espressione artistica consiste esattamente nell’indossare i panni dell’altro e se così non avvenisse – perché solo una donna afroamericana può tradurre le poesie di una nera afroamericana – la cultura si immiserirebbe a vacuo e narcisistico gioco di specchi; che Shakespeare o Omero – e anche certe ripetute forme di strutture narrative archetipiche – contengono significati universali dell’umano che è meschino ridurre ai domini di genere o alle vicende politiche di un’epoca, e chi se ne tiene lontano non è più libero ma solo spiritualmente più povero; che la risata (diversamente dalla derisione, però) può essere una modalità di avvicinamento e di esercizio critico; che le generalizzazioni uccidono il contesto; che la libertà di espressione va tutelata fino a prova contraria (però la prova contraria esiste, e comunque non si capisce perché, se un intellettuale riconosciuto spara a zero su qualcuno quella è libera espressione, mentre se gente sconosciuta spara a zero su di lui quello è fascismo e linciaggio mediatico).
C’è in corso una rinegoziazione di potere tra gruppi dentro la società, che inevitabilmente procede anche per eccessi, passi falsi, prove di forza, ed è segnata dai rancori di chi è stato (e ancora si trova) sotto. Rischia di diventare una grave miopia strategica focalizzare le lotte di liberazione sul genere e l’etnia, trascurando che la chiave del dominio è tuttora nella struttura di classe, e in questa fase storica è condizionata in modo specifico e determinante dalle infrastrutture tecnologiche.
Questo, però, nulla toglie al valore ideale di tale battaglia. Il compito dell’intellettuale non può restringersi alla correzione con la matita rossa delle corbellerie, ma dovrebbe invece orientarsi verso la ricerca dei punti di equilibrio dentro quella rinegoziazione. Sarebbe ora, insomma, che qualcuno finalmente si proclamasse “politicamente corretto” e aiutasse però a stendere un manifesto del suo contenuto, intorno al quale creare il consenso sociale per un progetto ordinato, liberato dalle scorie del settarismo e dalla claustrofobia iper-identitaria. E vincente, in campo aperto, contro quella forma odiosa, banale e vile di conformismo che è il politicamente scorretto.
Corrado Augias, Il Venerdì
Francesca Rigotti, Il Sole 24 ore
La conclusione del conduttore di Fahrenheit – Tommaso Giartosio
Queste sono le tre ragioni per cui ci si offende:
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Hai detto male di me
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Hai violato un confine
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Non ti sei accorto di me come, e quanto, avresti dovuto
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