Chi non vorrebbe essere in terapia da uno psichiatra che proclama la necessità di mantenere stabile il tasso alcolemico naturalmente di 0,05% presente nel sangue bevendo un paio di bicchieri di vino al giorno, con il risultato di mantenersi sereni ed efficienti? Ma esiste poi questo psichiatra? Sì e no, perché il soggetto in questione, Finn Skarderud, questa cosa l’ha detta come metafora, e ha precisato che chi la riporta la estrapola da un discorso molto più complesso, e però la finzione narrativa può ben concedersi le sue licenze. E così, nel film danese L’ultimo giro (Oscar per il miglior film straniero), quattro insegnanti scolastici, variamente frustrati e insoddisfatti della loro vita, decidono di testare sul campo la teoria, con eccellenti riscontri immediati ma una progressiva complicazione quando hanno l’alzata di genio di migliorarla e alzare la dose. Ci vorrà pure del coraggio a fare un film che non criminalizza l’alcool nella sbevazzonissima Danimarca (mostrando fra l’altro quanto ne tracannino i ragazzi), ma se la vediamo sotto questo profilo non è che il messaggio sia sconvolgente: sana misura e buon senso, va bene qualche bicchiere ma se eccedi sono cazzi tuoi (e capita che ne fai le spese). A questo aggiungiamo che gli episodi del drunk in progress in concreto hanno poco dell’autorialità del grande cinema europeo (ragazzi, stiamo parlando di Thomas Vittenberg, il regista del capolavoro Festen) e sembrano trasposti pari pari da una banalotta commedia americana, con la complicità di una sceneggiatura che non riesce mai a decollare. Se però accettiamo di prendere la somma ebbrezza come un pretesto per affrontare altro, allora il discorso cambia: e l’altro in questione pare a me quella particolare dimensione agonistica della vita che è la lotta contro se stessi, in nome di se stessi, e che contrariamente allo competizione sportiva- e in nome della ricerca disperata ma soverchiante della gioia di vivere o della fatica di scansare i massi che la ostruiscono- tollera in certi momenti il ricorso al doping. In questa dimensione il film è un gioiello di miracoloso equilibrio emotivo scandito dalla credibilità dei personaggi e da qualche punta di intenso e pudico lirismo. Se si conosce la storia del film c’è un sovrappiù di commovente intensità, dato che Vittenberg- che lo rimuginava da molti anni- ha perso la figlia diciannovenne in un incidente d’auto un mese dopo avere cominciato, ha mollato le riprese al suo aiuto (e un po’ si vede) ed è tornato alla guida nel finale, e così il problema di come smaltire il dolore è diventato involontariamente autobiografico. Gli attori, poi, tengono botta divinamente (che brutto doppiaggio, però!), specie l’asso Mads Mikalsen, che anche lui mescola vita e finzione, dato che come il protagonista rispolvera i balli di cui era maestro da giovane nella scena finale. Perché questo è la scena finale, una danza collettiva e dionisiaca, entusiasmante nel riassumere ed evolvere lo spirito del film, visivamente irresistibile, catartica e coerente, della categoria “vale da sola il prezzo del biglietto”, ma da sola poi non varrebbe proprio nulla, e ti pare che tutto il film sia stato un malizioso adescamento per introdurti a quel prodigio di fusione nucleare.
Un altro giro
Thomas Vinterberg
Votazione finale
I giudizi
Perfetto
Alla grande
Merita
Niente male
Né infamia né lode
Anche no
Da dimenticare
Terrificante
Si salvi chi può
Corrado Augias, Il Venerdì
Francesca Rigotti, Il Sole 24 ore
La conclusione del conduttore di Fahrenheit – Tommaso Giartosio
Queste sono le tre ragioni per cui ci si offende:
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Hai detto male di me
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Hai violato un confine
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Non ti sei accorto di me come, e quanto, avresti dovuto
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