Recensione del film “Il potere del cane”

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Così, senza nessuna seria cognizione e per puro istinto, verrebbe da pensare che tra Montana e Nuova Zelanda ci sia una bella differenza: e invece la Nuova Zelanda dei giorni nostri si rivela un eccellente scenario cinematografico per rappresentare il Montana del 1924.

Non viene invece del tutto superata l’istintiva diffidenza per l’abbinamento tra Jane Campion e un film western. Si doveva tirare la coperta da uno dei due lati, e sta tutta dal lato della regista perché il western è assai atipico: niente sparatorie, inseguimenti, razzie di mandrie, segnali di fumo e stelle di sceriffo. Del resto, come detto, siamo nel 1924, e pure i calessi sono spariti a favore delle automobili. Siamo perfino oltre il crepuscolo del west. Ma perché allora optare per l’adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo di Thomas Savage, e mettersi dietro la macchina per girare un western?

La prima risposta, probabilmente, è l’ambientazione selvaggia, da sempre il territorio visivo prediletto di Jane Campion, che anche questa volta (con la collaborazione del fotografo Ari Wagner) lo tratta in modo mirabile, con una sfilza di incantevoli campi lunghi. Viene da pensare subito alla predominanza dell’occhio, perché l’interazione psicologica dei personaggi con l’ambiente è piuttosto ridotta: tranne che uno, non pare che gli altri ne risultino in alcun modo influenzati. E però una simile considerazione suggerisce una seconda risposta: il loro essere disegnati su uno sfondo improbabile rispetto alle loro azioni introduce lo spettatore a un forte senso di straniamento, e lo straniamento (inutile ricordare l’iconico pianoforte di Lezioni di piano) è una colonna portante delle strutture filmiche di Campion.

Per non straniare anche il lettore, però, entriamo nel dettaglio della trama. I fratelli Burbank, Phil (Benedict Cumberbatch) e George (Jesse Plemons) sono i proprietari di un ranch, diversissimi per temperamento: il secondo è gentile e semi-urbanizzato, l’altro è un super-macho con tendenze sadiche, fa il bagno nel fango perché considera il sudiciume una forma di deontologia professionale e commemora con abbondanza di aneddoti il suo defunto mentore Bronco Henry. Jesse sposa una locandiera vedova, attaccata alla bottiglia e al figlio tardo-adolescente, che è appassionato di origami, ha movenze femminili e studia medicina praticando la vivisezione del primo animale che gli capita tra le grinfie. Dal punto di vista di Phil la donna è un’intrusa venuta a perturbare gli equilibri del suo universo mandriano, e così cerca di bullizzarla, con una certa sofisticatezza, perché sotto le parvenze dello zotico incolto si cela, non dico un erudito, ma un soggetto che maneggia il banjo, qualche citazione classica ed ha lasciato senza demerito l’università. Quando alla fattoria arriva anche il figlio, che alla prima conoscenza Phil aveva trattato con scherno, gli equilibri si muovono ulteriormente. Ci si incammina verso quello che dovrebbe essere un colpo di scena nella trama (in realtà prevedibile da presto) e a una svolta finale, quella sì inattesa, magistrale, hitchcockiana (si respira nella tensione un po’ l’aria dell’antico maestro del thriller).

Premiato con l’Oscar alla regia e il Leone d’argento, il film ha incontrato diverse critiche negative, oltre che per una certa prolissità, per la velocità con cui attraversa i mutamenti psicologici dei personaggi. Quanto alla prima, la rilassatezza del ritmo si incastra bene con la meditazione instillata dal paesaggio e comunque è segnata da uno stadio perpetuo di tensione, sostenuto dalla sartoriale colonna sonora del sempre versatile Jimmy Greenwood, e si basa fra l’altro sull’abile spostamento dell’apparente minaccia. Quanto al secondo punto, si potrebbe pur sempre dire che l’habitus del western è per definizione refrattario alle chiacchiere e all’eccesso di filtri psicologici. Ma è pur vero che nei western i personaggi, per lo più, rimangono scolpiti nelle loro condotte e convinzioni dall’inizio alla fine. Phil, al contrario, è intriso di contraddizioni e fratture identitarie, che trovano lo sbocco nel suo rapporto con la sessualità. E, pur volendo passare per buono (ma fino a un certo punto) che per gli altri lo spettatore possa contentarsi di una pennellata, intorno alla costruzione di Phil si stringe il cappio della semplificazione: sarà un omaggio alle impiccagioni dei western tradizionali?

Insomma che Jane Campion torni a fare un film dopo dodici anni era e rimane una buona notizia, tuttavia che persino un’artista come lei debba eccedere in autocontrollo e riduzioni di spessore per accontentare il committente Netflix e il valore edificante degli attuali discorsi pubblici, somiglia a una notizia cattiva. Oltre all’evasività del piano interiore e alla continenza di quello fisico, rincresce la scelta di alcune simbologie banali (ricordatevi poi di una certa corda). E c’è un altro difetto: molti film contemporanei, anche quando mettono al centro autori di atti orribili, riescono a smuovere i nostri sentimenti di pietà. Il potere del cane, al contrario, rende impossibile allo spettatore ogni attaccamento, esibendo l’essenza repulsiva di ciascuno, secondo me contro le intenzioni della regista.

Il potere del cane

Votazione finale

I giudizi

soli_4
Perfetto


Alla grande


Merita


Niente male


Né infamia né lode


Anche no


Da dimenticare


Terrificante

ombrelli_4
Si salvi chi può

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Anche se prevale un tono leggero e una gradevole vena di humor, la documentazione è solida, gli esempi fitti e illuminanti

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Un trattato, mica bruscolini. Il trattato, infatti, tipo quelli di Spinoza o di Wittgenstein, è un’opera di carattere filosofico, scientifico, letterario (...) E così è. Nel suo trattato Bassetti espone il come e perché dell’offesa.

Francesca Rigotti, Il Sole 24 ore

 

C’è un passo in cui di Bassetti dice che questo è un tema sorprendentemente poco esplorato...Non lo è più da quando c’è questo libro

La conclusione del conduttore di Fahrenheit – Tommaso Giartosio

 

Queste sono le tre ragioni per cui ci si offende:

  1. Hai detto male di me

  2. Hai violato un confine

  3. Non ti sei accorto di me come, e quanto, avresti dovuto

Di |2022-04-15T09:37:41+01:0015 Aprile 2022|2, Il Nuovo Giudizio Universale|

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