Ufficio Visti
Le opere di Gregory Crewdson, riconosciuto come uno dei più grandi fotografi viventi, ricercano un punto esatto di intersezione tra la realtà e la finzione e sono attraversate da un’unica ossessione: quella di dare conto della perdita di ogni orizzonte da parte degli americani che vivono nella provincia del paese e che appaiono lasciati a se stessi e da se stessi.
Dal punto di vista tecnico la particolarità di Crewdson consiste nella lunga preparazione delle foto, con l’allestimento di un vero e costoso set cinematografico, comprensivo di attori tra i quali figurano la moglie e i figli, e nella meticolosa post-produzione, per effetto della quale la foto conclusiva è la composizione di numerosi scatti effettuati nello stesso posto. È anche per questo che i suoi riferimenti visivi sembrano soprattutto cinematografici: Lynch, Altman (trovo molta “America oggi” in queste foto), il noir; e però le strutture di Hopper sono una costante presenza, e nell’ultima serie Crewdson pare volersi abbeverare alle sorgenti della fotografia sociale americana, alla Walker Evans, benché quest’accostamento possa apparire avventato dato che Evans scattava quel che trovava in strada, senza nessun artificioso imbruttimento (sociale).
Nella mostra che sigla l’esordio sulla scena di un museo molto promettente, le Gallerie d’Italia, dentro spazi dell’Intesa San Paolo a Torino (città che dall’anno prossimo, con un nuovo festival internazionale, ancor di più si proporrà come un polo dell’immagine fotografica), sono esposte in sequenza tre serie di Crewdson, che molto hanno in comune nei soggetti, nel luogo (il Massachusetts, e più specificamente il paesaggio post-industriale di Pittsfield) e nell’immaginario cupo e psicanalitico, oltre che nella tecnica di realizzazione e oltre all’umore e alla stato esistenziale dei personaggi (che definirei realismo smagato, una versione allucinata e totalmente disincantata e desacralizzata del realismo magico), ma fanno capo a tre ispirazioni visive differenti. La prima, Cathedral of Pines, realizzata tra il 2012 e il 2014, è potentemente pittorica: si stenta a credere, in alcuni casi, che il mezzo sia fotografico. Nella seconda, An Eclipse of Moths (2018-2019) la foto prende il sopravvento, mentre nell’ultima, Eveningside, commissionata per l’occasione, l’impronta cinematografica è più marcata.
In realtà di serie ce n’è una quarta, Fireflies, non meno affascinante (anzi), senza alcun grado di parentela con le altre nemmeno nella costruzione tecnica, legata a una fase intima e sofferta della vita di Crewdson vissuta solitaria in un cottage di famiglia nel 1996, composta solo di scatti alle lucciole che rischiaravano la notte e sollecitavano, in un afflato di pasoliniana nostalgia, l’indole poetica dell’artista. In realtà, a posteriori, una relazione c’è e chissà che non sia stata quella a indurre Crewdson, per la prima volta, a esporre una serie che considerava troppo connessa alla sua vita per rendere pubblica: le lucciole, con le loro formazioni compatte e danzanti, formano meravigliose figure e in questo modo fanno accadere qualcosa. Proprio ciò che è precluso agli individui solitari delle tre serie sociali, la cui caratteristica (molto marcata in Cathedral of Pines) è che transitano davanti alla camera quando già è accaduto qualcosa, che noi non conosceremo mai e di fronte alla quale loro sono ormai impotenti (la metafora visiva ricorrente di questo scacco è il buco).
Il marchio di fabbrica di Crewdson non è la post-fotografia ma una fotografia del post. Il titolo An eclipse of Moths significa “eclissi delle falene” e traccia un allegorico parallelismo tra lo smarrimento delle falene attratte della luce dei lampioni (e che spesso compaiono in queste foto) e lo stordimento deluso degli abitanti abbandonati dalla General Electric – che con la sua ora dismessa fabbrica garantiva loro l’occupazione – e dal sogno americano e dalle sue luci (che in pratica, poi, sarebbero circolarmente riconducibili alla General Electric). La seconda serie segna il passaggio dagli interni agli esterni e l’ultima, che si svolge nell’inesistente paese di Eveningside, l’atterraggio sul bianco e nero. In questo transito il politico continua a essere il personale (cioè, il fallimento del personale è l’inizio e la fine del politico), gli sguardi continuano a evitare di incrociarsi, gli spazi sono troppo vasti e vuoti per risultare confortevoli o di conforto e il dramma collettivo è la somma di non-monologhi individuali. Non concordo con chi si sforza di reperire segni di speranza e redenzione nelle foto di Crewdson, e non identifico il raggelamento dei suoi personaggi come un possibile atteggiamento di attesa o un epifanico evento introspettivo. Rimane però innegabile che la forza del colore e della composizione restituiscano un sentimento di inspiegabile e dolorosa bellezza degli ambienti, con il loro rado abitato.
Gregory Crewdson
Evengside
Gallerie d’Italia, Torino
Fino al 22 gennaio
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