Sono nato nel palazzo della Camorra

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La scorsa settimana, con qualche giorno di ritardo rispetto alla data effettiva della ricorrenza, sono sceso a Napoli con la famiglia: fanno vent’anni che non c’è più mia madre e non volevo mancare la visita al cimitero. Ho alloggiato in un bed e breakfast a pochi passi da Piazza Plebiscito, e con l’occasione ho proposto a mio figlio di mostrargli il palazzo in cui sono nato 61 anni fa, che si trova pochi passi, in via Egiziaca a Pizzofalcone (forse c’eravamo già andati quando era piccolo ma non ne conservava memoria). Si trattava sempre di ritorno alle radici ma non di uno specifico omaggio a mia madre che, nonostante le due nascite dei figli, non era stata felice in quella casa. Aveva convissuto, in un clima di pesante e reciproca non sopportazione, quattordici anni con la suocera, all’ultimo piano di una casa demaniale, come tutto il palazzo. La nostra, in astratto, aveva un certo decoro perché era stata concessa in uso a mio nonno paterno per i servizi resi alla casa reale come segretario (uno dei tre) del principe Umberto. Si chiamava Quinto Bassetti e si può sospettare che tra le sue conoscenze fosse inclusa quella del più giovane (ma non così tanto) Eduardo De Filippo, visto che il drammaturgo aveva affibbiato questo non comune nome e cognome a un personaggio ne “L’arte della commedia”.

A pochi metri dall’albergo e, nell’altra direzione, a pochi metri dalla caserma Nino Bixio dove, nelle fiction di Maurizio De Giovanni, sono acquartierati i “bastardi” che hanno reso famoso il nome della collina di Pizzofalcone; e in via Egiziaca comincia la saga, con la scoperta di due cadaveri. Ma nelle realtà in cui saltuariamente sono a volte tornato a percorrerla, via Egiziaca rappresentava un luogo immobile; piuttosto refrattario ad essere assorbito dalla zona turistica nonostante qualche edificio significativo, fra cui l’omonima chiesa e il sito archeologico del Monte Echia, e l’inevitabile apertura di piccole strutture di ospitalità; con in cima un belvedere da anni ostruito da un cantiere; pieno piuttosto di quei negozietti che nel resto del mondo sono spariti da una ventina d’anni, la classica bottega popolare di salumeria o il piccolo venditore di prodotti per la pulizia, essenzialmente detersivi. In qualcuno dei palazzi storici, nonostante l’indubbia fisionomia da abitato popolare, si intravedono magnifici cortili e qualche scorcio panoramico. Ma quando arriviamo al mio civico 35, varcando il portone spalancato, lo spettacolo è tutto diverso: la portineria è praticamente murata, ogni intonaco pesantemente scrostato, nelle cassette della posta sono impilate bollette della luce o del gas che il tenace postino ha insistito a depositare, a terra per il cortile c’è qualche traccia di detrito, non si incontra un’anima. L’ultima volta l’avevo vista in condizioni migliori. Imbocco la mia scala A, e saliamo i gradini. Al secondo piano sopra una porta ci sono i sigilli di sequestro della procura della Repubblica, e altrettanto al terzo. Al quarto e ultimo piano non posso arrivare perché è sbarrato da un cancello: sono riportati i cognomi dei vicini di allora, che a quanto pare abitano adesso anche l’alloggio che fu di mio nonno. Ce ne andiamo, con una strana sensazione addosso: da una finestra che vede le scale si affaccia un volto, pronto a schizzare all’indietro al primo rischio di intercettazione dello sguardo. Quando siamo fuori mi domando se sia successo qualcosa che ha oltrepassato la sfera del privato e trovo la risposta digitando su Google: via Egiziaca a Pizzofalcone 35. Ho appena lasciato le scale alle mie spalle.

Il primo ricordo che ho della mia vita è sopra quelle scale: è il giorno del trasloco, stiamo abbandonando la casa per trasferirci finalmente in una che ci faccia accedere al modello sociologico della famiglia nucleare. Nel ricordo io saltello avanti a tutti, gioioso. Si tratta chiaramente di un ricordo falso, non perché da bambino non fossi gioioso ma perché a tre anni non ero proprio tipo da saltellare sulle scale: l’apprensione di mia madre fece di me, nei primi anni, un pauroso e imbranato e un altro ricordo (di certo posteriore ai tre anni) mi riporta a una penosa discesa da un’altra scala ripida, con mio padre che per spronarmi si allontanava rifiutandosi di darmi la mano e avvertendomi: “Io vado, eh?”, minaccia cui opponevo un precoce e dilazionante favellare: “Un momento, sto arrivando, dico solo un momento…”. Come mai il primo ricordo che ho di me stesso è menzognero? Forse a compensare quel successivo, penoso inseguimento di mio padre? Ma che fine avevano fatto i tre anni trascorsi in quelle stanze, dei quali non resta un brandello che sia uno?

E che fine aveva fatto, secondo quel che mi riportava Google, la casa della primissima infanzia? Scopro una vicenda che era già stata affrontata dalle cronache nazionali e mi era sfuggita. Vent’anni fa la proprietà dell’edificio fu trasferita dal Demanio al Comune di Napoli. Non ebbe nemmeno il tempo di fare le assegnazioni, parrebbe, che le case furono occupate abusivamente. E all’improvviso piombò la camorra, ristrutturò alcuni appartamenti per degli affiliati e riscosse gli affitti dagli occupanti al posto del Comune. In uno dei video presi dalle trasmissioni di inchiesta di La7, un giovanotto sorridente tranquillizza: ma quale camorra, qua stanno tutte persone per bene. Tra l’estate del 2022 e il 2023 sono stati quasi completati gli sgomberi. L’ultimo il 28 giugno, tre giorni prima che arrivassi io. Per un attimo l’ho mancato. Se fossi venuto nel ventennale esatto della morte di mia madre, il 23 giugno, mi avrebbero messo addosso occhi sospetti e ostili. Alla storia è rimasta consegnata l’etichetta: il palazzo della camorra.

Fa un certo effetto, quasi di colpevolezza, essere nato nel palazzo della camorra: come ci fossi nato ora. E d’altronde mi pare di essere defraudato di qualcosa, come se anche la mia memoria fosse stata occupata abusivamente. E il fatto che non ricordi niente (se non quell’invenzione teatrale della discesa d’addio sulla scala), fa sì che questo nuovo evento scalzi ogni cosa: il mio ricordo, per gli anni che restano, assocerà la mia casa all’insediamento della camorra. Davvero non mi viene in mente altro? I vicini, un po’. Poi, qualche volta che con mio padre andavamo a trovare la nonna (che cosa ci hai preparato, mamma? le chiedeva mio padre. Ho pensato di fare due spaghettini e i petti di pollo. E con mio padre, ci scambiavamo un muto e sorridente cenno d’intesa perché il menu era fisso). In quelle occasioni passavo la gran parte del tempo giocando da solo sul grande terrazzo la cui vista si allargava sino al golfo: non c’era una pianta e il suolo si sbriciolava sotto le scarpe. A lato del terrazzo c’era uno sgabuzzino che sarebbe potuto diventare un’altra parte di casa. Mio padre fantasticava che il demanio gliela assegnasse, e che tutto si potesse ristrutturare facendone un appartamento signorile: ma ormai vivevamo al Vomero, non ci sfiorava davvero di tornare nel ventre della città e del resto non disponevamo dei soldi neppure per cambiare una mattonella. Quel che onestamente mio padre guadagnava come grandissimo maestro di scherma bastava giusto per arrivare alla fine del mese, e con fatica. Quando morì mia nonna, per il poco tempo rimasto prima che il demanio si riprendesse la casa, mio padre la sperimentò per uno di quei periodi in cui decideva di interrompere il vincolo matrimoniale, stufandosi della solitudine o della compagnia occasionale nel volgere di poche settimane. Avevo dodici o tredici anni, e alla casa senza memoria – della quale riconoscevo qualcosa solo nell’odore delle mura – ora che stava risucchiando mio padre volevo sempre meno bene, o meglio mi lasciava inquieto. A una di quelle giornate risale l’ultimo ricordo che ne conservo. Scendo le scale (ora potevo procedervi velocemente, ma non ero affatto gioioso) per compiere la mia seconda commissione nel giro di un’ora. La prima era consistita nell’acquisto di una busta di tortellini in salumeria. La seconda nell’andarli a restituire perché erano scaduti da due mesi. La donna che presidia il negozio (direi che ne ricordo perfettamente il volto e la postura: ma presumo sia pure quello un ricordo falso), ascoltato il mio reclamo, prende a rigirarsi pensosa e scrutatrice tra le mani i tortellini, per un minuto buono, come una veggente che si accinge a pronunciare il suo vaticinio. Che alla fine arriva. “Sono bbuoni” afferma con autorevolezza tendendomi la busta.

Quanti anni avrà adesso, se è ancora viva, la signora dei tortellini bbuoni? Forse la stessa età della ex professoressa novantenne, inquilina regolare del palazzo di via Egiziaca 35, che a novembre del 2021 trascorse qualche giorno in ospedale e al ritorno trovò i suoi mobili in strada e la serratura cambiata. Pochi giorni dopo la stessa sorte di perdere l’abitazione tocca a degli occupanti abusivi, per sgombero della polizia. Un’anziana, probabilmente della stessa età della professoressa, compare in un video di cronaca, che sbraita seduta su una sedia in strada, e che non ha un posto dove andare a dormire. Una donna sventola l’immacolato certificato del casellario giudiziario davanti a un reporter: dove stanno questi camorristi? Qua ci stanno tante brave persone. Probabilmente è vero: non si dovrebbe fare di tutt’erba un fascio. Ad alcuni degli sgomberati potremmo certo posare la mano sulla spalla e dire: sono bbuoni. Ma questa è proprio la forza della camorra, e in generale delle associazioni mafiose: riuscire a fare di tutt’erba un fascio e rendere ciascuno quando non colpevole o abusivo o abusante, perlomeno connivente, o testimone reticente. Di inconsapevole a via Egiziaca 35 è passato giusto qualche turista: alcuni appartamenti occupati sono stati adibiti a bed and breakfast.

Da una parte non posso che essere felice del flusso turistico che investe la città, anche in zone che quando ancora vivevo a Napoli erano del tutto off limits. Dall’altra ne vedo almeno due profili che mi intristiscono: il primo è l’evidente, crescente infiltrazione e riciclaggio di denaro della camorra nell’industria del turismo, in particolare nei bed e breakfast e nella ristorazione. Negli ultimi due anni si segnalano immobili venduti a prezzi stracciati per trasformarli in strutture ricettive intestate a dei prestanome, e alcuni casi di cronaca riguardanti i pestaggi di qualcuno più restio riguardo allo sconto sul suo alloggio. Leggo i dati che parlano di frequenti rapine dei turisti: ma non mi sembrano cifre ordinate, e in ogni caso nell’ipotetico incremento bisogna ristabilire la proporzione con l’enorme aumento dei turisti stessi. La percezione, poi, è diversa: i quartieri sono diventati i luoghi in cui il passeggio è più sicuro proprio perché la camorra non ha affatto interesse a disincentivare il business. Non è poi una cattiva notizia se al portafoglio dei visitatori si punta con il conto di una camera piuttosto che mediante un coltello. Ma la contaminazione tra l’attività lecita è quella illecita è quanto di più corrosivo per le fondamenta di una comunità civile.

E il secondo profilo non allegro, non per me almeno, è che l’abito che ogni giorno la città più si cuce addosso è quello di una gigantesca e ininterrotta friggitoria intervallata dal commercio di maglie o gadget riconducibili ai giocatori di calcio. Anche in questo non ci sarebbe niente di tragico, se non rilevassi che tale estensione avviene con un progressivo oscuramento di quello sforzo di recupero storico-culturale che ha segnato la prima rinascita napoletana (durante la gestione Bassolino). Cammino per via Toledo e ogni apertura della strada verso il porto si spegne sopra la massa di una mastodontica nave da crociera. Entro in uno storico caffè e l’aspetto tutt’altro che meridionale di mia moglie ci etichetta come turisti e ci espone a una notevole maggiorazione del prezzo, oltre che alle sfogliatelle del giorno prima. Ad ogni angolo dove è possibile imbastire un commercio un napoletano fa la parte del napoletano, si sforza di calzare allo stereotipo di cui il turista cerca la conferma. Anche questa non è una novità: La Capria (con un’attenzione particolare ai borghesi) distingueva al riguardo tra la napoletanità e la napoletaneria, la seconda posticcia e la prima ormai estinta.

Se fossi Carrère andrei a caccia dei vecchi vicini per tirarne fuori una fiction/no fiction che mi ruota intorno. Li ricordo, i miei vicini – per le visite di cortesia in cui accompagnavo mia madre nei primi anni dopo il trasloco – come brave persone del popolo, con tante piante sul balcone, una cucina enorme e un salotto dove la notte si sistemavano a dormire in sette/otto. Saranno lì come regolari, regolarmente estesisi anche al mio alloggio d’infanzia, o hanno dovuto acconciarsi con la repubblica autonoma che si andava instaurando? Hanno messo un cancello al pianerottolo per proteggerlo come un fortino? Saranno stati minacciati? E rientrando a casa, come scansavano i nemici? Si calavano sul mio vecchio terrazzo con un elicottero? Potrei bussare al campanello, semplicemente, e avrei forse modo di rivedere la mia vecchia casa, forse finalmente tirare fuori quei ricordi dei primissimi anni di vita che si ostinano a rimanere nascosti. Forse sono nascosti proprio in casa, sotto il letto, come un gatto del quartiere chiamato Capoccione per la sua abnorme conformazione cranica che venne a ficcarsi lì, calando dai tetti, e sorprendendo la mia giovane futura madre incinta della mia sorella maggiore, togliendole il respiro per lo spavento, perché era buio, perché lei si spaventava con facilità, perché si spaventava dei gatti, perché si spaventava di Capoccione anche quando se lo trovava in strada,  perché non ti aspetti un gatto sotto il letto, perché i gatti 70 anni fa non godevano della stessa buona stampa di oggi. E nonno Quinto, accorso, si avventò con una ramazza contro Capoccione, lo spinse fuori al terrazzo, e ingaggiò una battaglia furiosa sino a che rientrò battendo le mani una contro l’altra con il gesto che si fa quando si intende che una questione è sistemata, non lo vedrai più Capoccione, tranquillizzava mia madre, lo aveva fatto precipitare dal quarto piano. Ma dopo pochi giorni rincasò indignato: “Non immagini chi ho visto! Quel disgraziato!”. Ce l’aveva fatta Capoccione, anche se rimase un po’ sciancatello. Rimase anche nella memoria di mia madre (memoria, memoria! Quando poca e quando troppa!) che almeno mille volte ripeté il racconto. E se i nipoti provavano a fermarla, sì sì, la conosciamo la storia di Capoccione, continuava più che imperterrita, felice, perché l’avvertenza la rassicurava che stava recitando – con la massima spontaneità – la parte di se stessa.

Se fossi stato Carrère, dicevo, avrei incalzato i vicini. Invece non voglio nemmeno nominarne il cognome, sai mai che gli tira qualche guaio. E perché poi dovrebbero dirmi il vero, visto che a via Egiziaca, dalla mia memoria alla venditrice di tortellini fino agli occupanti che dicevano la camorra, figurarsi, la verità fa così fatica ad accasarsi. Preferisco cercare ristoro in una via adiacente, via Solitaria, dove mia sorella ha rintracciato una buona e antica pizzeria, la stessa in cui erano soliti mangiare i miei zii paterni (il fratello di mio padre e sua moglie, due personaggi particolari oscillanti secondo l’alterna posizione economica tra la dilagante generosità e lo spirito di rapina. Ma certo, i mobili a via Egiziaca 35 è stato sempre difficile lasciarli in casa! Molto prima della novantenne di ritorno dall’ospedale! Era appena arrivata la camera matrimoniale, al matrimonio mancavano giorni, e mio padre rientrando udì da fuori la porta la lite furiosa in corso tra nonno Quinto e gli zii, che avevano un’idea in testa e la sostenevano con calore: perché mio padre non poteva vendere la sua fresca camera nuziale per dare una mano al fratello, in temporanea difficoltà?).

Cerco ristoro in questa pizzeria di via Solitaria 34, e questo sì è un omaggio a mia madre, la cui famiglia aveva vissuto a pochi metri di distanza, in vico della Solitaria, e mia mamma ci passava intere ore anche da sposata per scampare all’odiata suocera. Mia sorella mi porta a vedere la casa, sembra incredibile ma per me era la prima volta, mia madre ne aveva avuto sempre pudore. Non pare così male: un basso ma con un piano superiore e diversi balconi. Mia sorella mi racconta che il nonno materno, di cognome Sessa, era costretto dai contrabbandieri a nascondere le sigarette durante le improvvisate della polizia o della finanza. Quelli lo ricompensavano attaccando la sua corrente alla luce pubblica, così risparmiava le bollette. I soliti confini abbattuti di cui dicevo. Comunque il passeggio nella zona di via e vico Solitaria mi conforta. Si vede che c’è stato uno sforzo di recupero. Spira un’aria tranquilla, e anche un venticello piacevole.

Due giorni dopo, a mezzanotte, Pasquale Sesso, con dei precedenti per rapina e spaccio, viene ucciso sul suo scooter a colpi di pistola in via Solitaria, quasi di fronte alla pizzeria.

Di |2024-12-06T16:57:05+01:007 Luglio 2023|12, Forse ti sei perso, Limite di velocità|

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