Quale cambiamento si nasconde dietro la vittoria di Trump
Prima di spiegare perché con l’elezione di Trump finisce il mondo in cui sono nato (cioè, quello che corre dal
1961 fino al 5 novembre 2024) è giusto specificare che tutta una serie di critiche riguardanti questo esito
elettorale – e che in buona parte sottoscriverei a titolo personale – lasciano il tempo che trovano. Cioè, non
scalfiscono il principio per cui il risultato elettorale può non piacere, non a tutti, ma bisogna rispettare
quelli a cui è piaciuto, e piace, in prospettiva.
Possiamo pensare che trovarsi Trump a capo della prima potenza mondiale con due guerre di quel calibro
in corso sia come piazzare il classico elefante nel negozio di porcellane (tutte di Capodimonte, per giunta, e
pure nucleari). E però dobbiamo riconoscere – con il trascorrere del secondo anno e mezzo dall’inizio della
guerra ucraina e con le centinaia di quotidiani vittime a Gaza, senza nessuna seria prospettiva prossima di
cessazione nell’uno e nell’altro caso – che la presidenza democratica non è che se la stesse cavando tanto
bene.
Possiamo dolerci, come europei e italiani, che Trump ci costerà un pesante danno alle esportazioni per via
dei dazi, che ci costringerà a un incremento delle spese militari per far fronte più o meno da soli
all’aggressività russa e che sarà paradossale doverci tener stretti i codici militari di sicurezza per la fondata
paura che Trump faccia “inoltra” a Putin. Ma dobbiamo ammettere che quelli sono elettori americani, non
europei, e guardano dunque al tornaconto loro piuttosto che al nostro.
Possiamo guardare con timore a una nuova epoca di isolazionismo americano, ma sul punto l’America ha
vissuto puntuali oscillazioni; e tante doglianze sull’eccesso di presenza e interventismo sono tutt’altro che
ingiustificate.
Possiamo stupirci del fatto che Trump sia stato votato con la convinzione che renderà più ricco il paese,
benché i dati economici della sua gestione siano ampiamente peggiori della gestione Biden. Ma da sempre
le persone non votano secondo criteri di macroeconomia bensì osservando il proprio carrello della spesa, e
se il loro reddito concede di riempirlo solo a metà a causa dell’inflazione non stanno più di tanto a
domandarsi di chi sia la colpa e votano in una direzione opposta.
Possiamo provare sdegno, o anche ripugnanza, per la tempesta che si annuncia in America sui diritti civili e
le questioni di genere o razza ma (questa volta a nostro vantaggio) le elezioni riguardano il governo
americano e non quello europeo, e la partita si è svolta a carte scoperte – peraltro non ha giovato che
sacrosante battaglie per il rispetto e la dignità delle fasce storicamente discriminate abbiano a loro volta
assunto una veste di autoritarismo censorio.
Se crediamo in certi principi di universalismo etico, possiamo provare tristezza, o anche orrore, per la sorte
che toccherà ai migranti, ma si tratta di un punto dolente in tutto il mondo, e di rado la sinistra è riuscita ad
affrontare in modo concreto e rassicurante la questione per quelli che ne hanno una percezione negativa,
per quanto distorta possa essere (e a volte lo è e a volte no).
Possiamo essere preoccupati per la sostenibilità ambientale e i cambiamenti climatici che subiranno un
brusco arresto, e tuttavia dobbiamo riconoscere che spiegare a milioni di operai che devono trovarsi un
altro lavoro (anche se non c’è) e agli abitanti del terzo mondo che devono darsi una regolata perché le
risorse stanno finendo non è questioncella sbrigativa.
Possiamo (e dobbiamo) contestare l’ideologia ur-capitalista (ma non esattamente liberista) di cui è
portatore Trump, e tuttavia i tre quarti del nostro tempo e dei nostri affari (e anche quest’articolo)
transitano per la quintessenza (questa liberista) dell’ur-capitalismo, la rete digitale gestita da un pugno di
monopolisti che accumula una quantità insensata di profitti sui nostri dati, genera zero virgola occupazione,
radicalizza la totale finanziarizzazione dell’economia e scaccia dal mercato qualsiasi nuovo concorrente.
Può rincrescerci che la gente si sia disinteressata degli appelli di artisti o intellettuali, ma è pur vero che la
suggestione degli influencer non è esattamente il modo in cui le persone dovrebbero formarsi le opinioni.
E allora cosa rende quest’elezione così diversa dal passato? E perché dovremmo preoccuparci tanto, visto
che Trump è stato già presidente una volta e siamo sopravvissuti alla sua allegra gestione di una pandemia?
(in verità diversi americani non sono sopravvissuti, ma trattiamo la questione in senso globalista).
Nel 1993 Robert Altman girò un bellissimo film a episodi interni, “America oggi”. Truce, desolante, spietato
sulle forme di disumanizzazione dell’umanità. Il mio pensiero fu che si sarebbe potuto intitolare “Europa
domani”, tanto è stato sin qui certo che quel che parte dall’America prima o poi arriva in Italia, e ciò che
pareva estraneo diventa parte del nostro quotidiano (guardate questa pellicola, please).
Sì, gli Stati Uniti non sono più il faro esclusivo di una volta. La Corea offre modelli di pop o telenovela (anche
di cinema o di arte contemporanea ma quelli non creano egemonia culturale), il Giappone modelli
alimentari. Della Cina e dell’India sin qui le importazioni sono solo commerciali. Non ci sogneremmo mai di
difendere una forma di libertà o di costituzionalismo dicendo che così accade anche in Cina o in Corea o in
India. O in Brasile. O in Sudafrica. In quei campi, anche per chi li avversi culturalmente, gli Stati Uniti
plasmano le dinamiche del possibile.
Da oggi dunque – non negli stati africani che pagano l’eredità del colonialismo e la presenza sociale
dell’esercito, non negli stati sudamericani che lottano spesso invano per liberarsi dalle spire del proto-
populismo, non negli stati dell’ex cortina di ferro che non hanno mai veramente saldato i conti con la
burocrazia comunista – da oggi dunque, in un qualunque stato occidentale si potrà eleggere come capo
dello stato un criminale conclamato (in senso tecnico), una persona su cui pendono una ventina di processi,
un soggetto che di fatto non riconosce la legittimità del governo in carica e ha praticato, sia pure per mezzo
di quattro accattoni, la strada sediziosa per rovesciarlo, un soggetto che ha dichiarato in anticipo di non
essere disposto ad accettare un qualunque risultato diverso dalla sua vittoria. Una persona cioè non
candidabile in una democrazia vagamente parente dei concetti con cui la identifichiamo. E che non solo è
stato candidato, ma ha vinto, e in parte proprio per questi profili estremi – perversamente ribaltati nel
coraggio di essere “contro” e nell’esistenza di un complotto, uno dei tanti of course – che tanto colpiscono
l’immaginario collettivo e che, insieme alla violenza simbolica del linguaggio, il culto del capo e una visione
magica della realtà, rappresentano il cemento psicologico della base di consenso fascio-populista. La
vittoria di Trump è dunque quanto di più vicino sia accaduto, nel dopoguerra, al successo elettorale di
Hitler. Quanto al fatto che non sia la prima, nel 2016 non si erano ancora verificate le circostanze che mi
fanno parlare di ineleggibilità, e l’uomo era più un outsider sessista e gaffeur che un seminatore di odio il
cui picco di statismo coincide con la riprovazione per gli immigrati haitiani che a Springfield mangiano cani e
gatti (e in effetti ha vinto pure in quella città). Questo è quello che potrebbe attendere l’Europa nei
prossimi anni, ora che c’è un precedente.
La democrazia, nella sua vulgata più rozza, viene risolta nello svolgimento periodico di elezioni, al termine delle quali la fazione vincitrice è padrona di organizzare tutta la vita sociale come ritiene in forza del mandato popolare (cioè dell’essere maggioranza). In realtà l’essenza della democrazia consiste nella conciliazione tra il potere di governare e il rispetto della minoranza. I due principali baluardi di tale assetto sono una certa rigidità costituzionale (e quindi una quota di diritti acquisiti su cui tendenzialmente non si vota più, non almeno riguardo alla loro soppressione) e la totale autonomia del potere giudiziario, che deve attenersi solo all’applicazione della legge e non seguire la direzione del governo. Proprio in queste aree Trump forzerà in ogni modo la mano.
L’altra caratteristica che rende questa elezione diversa da tutte le altre è che per la prima volta è stata più
determinante la disinformazione dell’informazione. Non che la manipolazione sia una novità (al contrario è
un dato strutturale della politica dalle sue origini, e in America si è allineata alla promozione commerciale
dai primi anni del 900); e in quella che viene rimpianta come età d’oro dell’informazione passava una mole
notevole di informazione scadente. Ma la cattiva informazione è una cosa differente dalla disinformazione,
che consiste nella produzione su scala industriale di contenuti facili da diffondere in cui l’apparenza
visivamente veridica è inversamente proporzionale al rapporto con la realtà, al punto che le persone dotate
di comune raziocinio potrebbero scambiare tutto per una burla. Come ho scritto più volte, non è chi ci
crede che trova la bugia ma la bugia che trova chi ci crede: la profilazione digitale tuttavia offre ai creduloni
un nutrimento quotidiano, diversamente irraggiungibile, e che stabilizza i pregiudizi, tiene viva la stupidità e
l’ignoranza e accresce i sentimenti negativi di rabbia. Il banco di prova più importante – grazie ai bot russi o
cinesi o alle fake di Musk – è stato superato. Possiamo essere ben certi che questo rimarrà il trend per il
futuro, e che la strategia percorsa non sarà più quella di informare ma di disinformare.
Con questo non intendo spostare la colpa della disfatta dalla sinistra americana, così come sulle sinistre o le
forze moderate europee pesa la responsabilità delle disfatte subite e delle prossime che subirà: hanno
trascurato la frustrazione socioeconomica delle fasce marginali e fallito la costruzione di un sistema sociale
più equo, sprecando decine di anni di tempo avuto a disposizione. Al tempo stesso, trovo demagogico
insistere sul torto che le élite hanno avuto nell’attirarsi l’odio popolare proprio mentre sta per nascere il
regime più elitista che si potesse immaginare. La democrazia sarebbe da ristrutturare profondamente,
anche nelle procedure, ma forse è troppo tardi e ci tocca di battezzare una semi-autocrazia selvaggiamente
retriva innervata dal cinico uto-distopismo tecnologico di Elon Musk (ed è difficile stabilire tra lui e Trump
chi sia l’apprendista e chi lo stregone). Tra i commenti filotrumpiani mi è capitato di ascoltarne uno di un
imprenditore italiano trasferitosi in America: ho votato in maniera pragmatica, ha detto, guardando il lato
degli affari. E in questo non ci sarebbe nulla di terribile, se non fosse lampante che le parole sarebbero
state identiche se quel tipo di preferenza se la fosse guadagnata il boia di Treblinka.
In questo senso, non si tratta più del mondo in cui sono nato.
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