RECENSIONE GIURATO N.2

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In tutta la sua lunghissima vita cinematografica la questione della giustizia e della sua problematicità è stato il tema centrale di Clint Eastwood. Dai western (sui quali sempre poco si sottolinea come l’argomento cardine della frontiera riguardi metaforicamente la giustizia) alle indagini del commissario Callaghan, da Gran Torino a Richard Jewell (ma anche in opere che sembrano risucchiate da altri dilemmi, come Milion Dollar Baby). I meriti non c’entrano in questa storia risponde Clint Eastwood al morente sceriffo Gene Hackman mentre gli tira il colpo di grazia alla tempia, troncando la discussone su quel di buono Hackman aveva fatto nella vita (e lo spettatore sa che il criminale Eastwood sta compiendo un atto di giustizia). Arrivato all’età quasi record di 94 anni alla regia (quasi: Manoel De Oliveira se non ricordo male aveva diretto l’ultimo a 102), Clint decide di prendere la questione senza tanti giri e lascia che la domanda circoli espressamente nel film “Giurato n. 2”: la giustizia coincide davvero con la verità?

La storia, non facile da immaginare, è semplice da raccontare: Justin Kemp, una brava persona comune in procinto di provare la gioia della paternità dopo altri disgraziati tentativi, viene precettato per comporre una giuria d’assise chiamata a pronunciarsi su un possibile omicidio. Una donna è stata ritrovata con delle fratture al cranio e alle spalle al fondo di una scarpata, lungo il bordo di una strada attraversata abitualmente da macchine sfreccianti. Pochi minuti prima si era presa di brutto in un bar con il suo fidanzato, un tipaccio odioso e antisociale, che probabilmente fa lo spacciatore, nell’alterco apparso minaccioso, e che probabilmente l’aveva seguita a piedi sotto la pioggia dopo che la donna aveva concluso la discussione dicendo che avrebbe troncato il rapporto. Al termine del dibattimento, undici giurati su dodici sono pronti a votare la colpevolezza. L’unico dissidente è Justin Kemp, che li frena: sì, ci sono circostanza che farebbero pensare al crimine, ma ne siamo poi sicuri? Una condanna può essere pronunciata solo se un imputato ha commesso il fatto oltre ogni ragionevole dubbio. Una tesi ineccepibile in termini di diritto che Kemp tuttavia (interpretato dal convincentissimo Nicholas Hoult) non sostiene per fine intuito giuridico ma perché nella sua coscienza sa che le cose sono andate diversamente. La sera dell’omicidio Justin era sbandato con la sua auto sotto la tempesta e si era reso conto di avere colpito qualcosa/qualcuno. Era sceso a controllare ma non aveva trovato nulla, se non un cartello che avvertiva della presenza di cervi. Si era persuaso di avere colpito un animale e la vicenda era stata archiviata dalla sua memoria. Ascoltando in aula la ricostruzione della scena, capisce che ad uccidere la donna era stato lui. Si precipita così da un suo amico avvocato, manifestando il proposito di costituirsi, dichiarando che si è trattato di una disgrazia, quale in effetti era. Per carità! lo dissuade l’avvocato. Kemp ha un passato di alcolista, la corte non crederebbe che lo ha lasciato alle spalle e gli appiopperebbe trent’anni di carcere. A Kemp dunque pare non resti che tacere e semmai lottare, nella sua speciale posizione, per far assolvere l’imputato. È anche vero però che se il processo si concludesse con la condanna di costui non ci sarebbe da temere una riapertura del caso…

Un dilemma morale da cinema iraniano, sopra il quale Eastwood innesta una serie di piccoli avvenimenti che sembrano ogni tanto dare una svolta alla trama e aumentano il ritmo e la tensione del court drama. Il regista è anche molto abile a mostrare le falle della giustizia americane ma pure le illusioni più genericamente coltivate sul buon funzionamento della giuria popolare: ognuno è predisposto a un verdetto che corrisponda ai suoi personali fantasmi interiori e pregiudizi, quando non ad assecondare l’esito che renda più veloce il ritorno a casa. A condurre l’accusa è un pubblico ministero donna che ha legato alla repressione di questo crimine il suo successo all’ elezione come procuratore distrettuale, e che in prima battuta dunque mira a tale obiettivo più che a una meticolosa disamina del processo.

Alcuni passaggi della sceneggiatura sono un tantino didascalici ma tutto sommato non stonano in un film d’impostazione classica che ha ben presenti i riferimenti di genere (su tutti La parola ai giurati di Sidney Lumet) ed esibisce una purezza essenziale di immagine. Il finale è impeccabile e così la recitazione di tutti, anche in assenza di star. Il risultato finale, formidabile di suo, è entusiasmante se si mette in conto la veneranda età dell’autore (quanto pagherei per vedere in che modo lavora sul set adesso!), ormai indiscutibilmente da collocare tra le più grandi figure del cinema di tutti i tempi. Quasi ci si augurerebbe che questo sia, come si sussurra, l’ultimo film suo, di modo che chiuda la carriera con un capolavoro. E però, oltre all’affezione e dunque al rammarico di interrompere il nostro legame di spettatori con lui, va ricordato che lo stesso discorso (e previsione di fine carriera) venne espressa dopo Gran Torino. Era il 2008, pensate quante emozioni ci saremmo persi…

Giurato n. 2

Quattro soli

Di |2024-12-23T12:55:46+01:0023 Dicembre 2024|2, Il Nuovo Giudizio Universale|

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