Estratto (da “Storia e storie dello sport in Italia“)
Ad associare il mondo del calcio all’idea dell’arricchimento fu anche il decollo del Totocalcio, il concorso pronostici delle partite. L’idea della schedina venne in mente al giornalista triestino Massimo Della Pergola mentre si trovava in un campo d’internamento durante la guerra.Al ritorno, ottenne l’autorizzazione dello stato a vararla e gestirla per mezzo di una società chiamata Sisal, nome che per consuetudine avrebbe indicato la schedina stessa.Le partite da indovinare erano dodici, con due di riserva, la colonna era unica e il costo di trenta lire, lo stesso di un vermuth e non a caso, dato che Della Pergola pensava che per la cifra di un aperitivo la gente avrebbe preferito tentare la sorte. Invece l’inizio fu fallimentare e le persone dimostrarono di preferire l’aperitivo, mandando invendute buona parte dei 5 milioni di schedine stampate per il 5 maggio 1946, giornata di esordio. Della Pergola le provò tutte: anche uno spoglio pubblico alla stazione di Milano durante uno sciopero generale. Piano piano la diffidenza svanì: anzi subentrò una certa intimità con la schedina come oggetto; visto che non costava niente la si trovava dovunque, nelle sale dei barbieri per pulire i rasoi insaponati, nelle tasche delle giacche per soffiarsi il naso, nelle latrine per l’uso che si può immaginare, dai tabaccai per avvolgere le sigarette. A furia di avercela davanti qualcuno pensò anche di compilarla. Al definitivo decollo di popolarità contribuì la prima vincita-super, nel 1948: 63 milioni vinti da un falegname di Treviglio che fabbricava casse da morto e vantava nel prestigioso curriculum l’interramento di Guglielmo Marconi. La fortuna aiutava i diseredati ma si traduceva rapidamente in disgrazia perché il possesso improvviso di simili capitali era un evento choccante. Il secondo milionario, un minatore sardo, sperperò rapidamente i 77 milioni guadagnati, così come nel 1951 il primo tredicista, un bigliettaio delle linee ferroviarie siciliane o il vincitore di 243 milioni nel 1953 che abbandonò anche la famiglia. Il colmo della iattura lo raggiunse il tredicista-record del 1959 (245 milioni), stroncato da un infarto alla notizia della vincita.
Qualcuno ha scritto che il Totocalcio è un gioco apollineo che consente alle persone di sognare l’elevazione personale senza entrare in competizione con gli altri, senza partorire istinti violenti, che resta agnostico rispetto alle distinzioni e alla lotta di classe e, per di più, simula le procedure elettorali. Insomma un alleato, ancorché involontario, della democrazia. Esso fu un nuovo elemento di euforia in un paese che era passato, nel volgere di pochi anni, dal bagno condominiale al sogno della cucina esibita nei film americani. Nel cinema italiano, invece, si vedevano anche storie legate alla schedina: tema principale in Ho fatto 13 (1951), sullo sfondo in La domenica della buona gente (1953), tratto da un romanzo di Vasco Pratolini, e in L’audace colpo dei soliti ignoti (1959), che narra l’assalto al furgone del Totocalcio e contiene un’esilarante ricostruzione-alibi di Milan – Roma recitata da Vittorio Gassman al commissario.
Dal 1948 c’è, a parte gli altri che ruotano, qualcuno che vince tutte le domeniche. È il Coni, a cui lo stato, non rinnovando la concessione alla Sisal, affida il monopolio del gioco. I proventi della schedina sono stati divisi, in percentuali variate nel tempo, tra il Coni e lo stato. Da qui è nata la tesi che in Italia sia lo sport a finanziare lo stato e non viceversa, sorvolando sulla circostanza che allo stato spetta il monopolio delle lotterie e lasciarne la gestione al Coni è appunto la forma intelligente di elargizione che lo stato riserva allo sport agonistico. Si dirà che se le persone giocano al Totocalcio il merito è dei calciatori che disputano le partite. Vero. Anche chi gioca al Totip lo fa grazie ai cavalli che scendono in pista. Eppure nessuno ha mai preteso che i proventi del Totip vengano interamente reinvestiti in biada.
Nuvolari, Mussolini, Coppi, il miracolo economico, Maradona, la borghesia di inizio secolo, i caratteri degli italiani, il Coni, l’alpinismo, il doping, la violenza negli stadi… In questo libro, dai primi passi nell’Ottocento fino alla fine degli anni Novanta, lo sport viene trattato come osservatorio privilegiato per la comprensione di fenomeni sociali e culturali e fotografia della vita nazionale. Ma Storia e storie dello sport è anche una specie di romanzo collettivo in cui gli atleti e i personaggi sono narrati nei loro dati umani e tecnici, essenziali o piacevolmente inessenziali.
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