Monologhi dal carcere
Mio padre è stato un vero comunista, ha lavorato tutta la vita, ora abiteremo tutti nella casa costruita con i soldi sporchi, se lo sapesse mi ammazzerebbe come metto piede in Albania, ma io qui dentro sto pagando il mio debito con la giustizia e mi sento a posto, mi piace guardare come sta venendo, mi spediscono le fotografie, mi contemplo ogni piastrella nuova, mi aiuta a ricordarmi che non sono nato qui, che non ci morirò, a non sentirmi un falco senza nido, a quello che ti manca pensi, a quello che hai fatto molto meno, e il recupero d’altronde è una questione delicata, io ho intrapreso la strada del crimine per guadagnare bene, se mi fai sudare dieci ore al giorno e mi dai un milione e settecentomila lire non mi hai risolto il problema, non dico che sia giusto, dico che è cosí. Si cerca ogni occasione per uscire dalla cella, se non fai i corsi ci passi ventidue ore dentro, ho fatto anche il corso di mediatore culturale per lavorare all’interno, ma è venuto giú il vice-direttore, mi ha detto voi del sesto raggio non potete svolgere quel lavoro come gli altri, dovete stare tra voi, duecentottantatre ore di corso non sono servite a niente, e perché poi dobbiamo fare piú schifo degli altri, al quarto raggio c’è stata una rissa tra marocchini e albanesi, sono finiti all’ospedale in quattordici, noi questi problemi non li diamo, non nego che sia brutto sfilare qui in mezzo a chi ha commesso reati sessuali, travestiti, sfruttatori, pedofili, ma in fondo è la stessa barca, di quelle che a voi piacerebbe affondare a cannonate quando arrivano sulla costa, per molti è solo questione di essere disperati, lo dico senza interesse, ho spiegato già che non riguarda me, oppure è una questione di non stare tanto bene con la testa, a me non è che garbi stare dentro questo manicomio, e allora mi distraggo, faccio ginnastica, ho comprato del sale, costa poco, lo metto dentro i bidoni con l’acqua, una scopa in mezzo, lo sollevo, oppure metto carina la cella, mi piace l’ordine, l’ho verniciata da solo, l’ho graffiata con le scatole di pelati, ho fatto la domandina per la vernice, è arrivata dopo un mese, dal mio letto guardo il lavoro che è venuto bene. Quando torno al paese mi sposo ma se mia moglie non rispetta mia madre la lascio subito, e per lei sarebbe una condanna, perché una donna divisa da noi non riesce a risposarsi, cosa deve fare? alzarsi prima di mio padre e mia madre, fare il caffè, e se li vuole rispettare di piú va a lavare loro le gambe, e mai rimandare la parola indietro, se le dicono fai questo devi farlo, se lei mi rispetta allora è una degna moglie per me e la mia famiglia, lo so, per voi sarebbe una violazione di diritti, io le voglio bene ma se lei mi vuole bene rispetta loro perché mi hanno cresciuto fino adesso, non posso buttare via loro per te, che ti ho conosciuto oggi, magari poi loro non permettono che lei lavi le gambe, basta il gesto, e se loro sbagliano con lei dovrà dirlo a me e io lo dico a mio padre, certo tutto questo non davanti a lei, alcune cose del mio paese voi non le capite, anche l’uso della forza non è negativo, se agisci d’impulso ti dicono bravo, hai fatto bene, un albanese giudicato bene è uno che ripara i torti da solo e fa rispettare i genitori e i parenti della moglie, non rinnega mai il suo sangue, se è il piú giovane dei figli deve mantenere il padre e la madre, e la cosa piú importante è l’obiettivo, se serve alla famiglia, la sincerità è solo un mezzo, se non serve alla famiglia non va bene, viviamo nella diffidenza, specie tra noi, se io esco e vedo un albanese cambio strada, se in galera tra connazionali litighiamo per la televisione non ci parliamo per mesi, e se a uno chiediamo diecimila lire e nove volte ce le dà e la decima le rifiuta diciamo che è una merda, però la mafia non ce l’abbiamo, voi la chiamate cosí ma la mafia richiede gerarchie e a noi il capo non piace, siamo tutti comandanti, voi ci guardate storti, ma noi occupiamo angoli delle strade che occupavate voi, e se non li occupate piú non è perché andate tutti in ufficio, e l’avidità l’abbiamo cominciata a masticare guardando voi, le vostre televisioni sui nostri televisori, nelle case che ce l’avevano. Ci hanno tagliato il vino e la birra, succedevano traffici, chi non le beveva le vendeva a qualcuno, si ubriacavano, specie i trans, e poi magari si tagliavano le vene, ma non è che se te ne stai apatico sei davvero piú tranquillo, la collera esplode da un momento all’altro, la furia del cane in gabbia, l’unico segno buono di quella rabbia è che sei ancora vivo, un paio di giorni fa è morto un tunisino, era malato, tutti i giorni gli cambiavano le lenzuola, si pisciava addosso e pesava trentacinque chili, gli avevano rifiutato gli arresti domiciliari, sino a che ha potuto si è alzato dal letto per venire a scuola, ci stava con gli occhi chiusi.
Un libro in tre parti, diverse ma complementari. La prima, la pena pensata, risponde alla domanda “perché punire” e si confronta con le ipocrisie sottese all’attuale sistema. La pena applicata, traccia una minuziosa storia della prigione in Italia, con il supporto di materiali d’archivio, e oscilla spesso tra il drammatico e il grottesco. L’ultima parte, la pena vissuta, è una collezione di brevi monologhi, raccolti dall’autore sulla base di colloqui effettuati nei più importanti istituti di pena del paese: più che resoconto una narrazione, condotta sul filo di una tensione linguistica che mira a restituire nello stile la frammentazione e l’isolamento delle voci ascoltate.
Scrivi un commento