Uno si aspetterebbe che un’azienda tecnologica sia adeguatamente attrezzata per far fronte all’hackeraggio. Invece Uber si è fatta sottrarre i dati di 50 milioni di clienti e 7 milioni di autisti. Dopo di che, ha pagato 100.000 dollari ai pirati per evitare che la notizia venisse divulgata, praticamente rendendosi complice dell’uso criminoso che costoro avrebbero potuto fare con i dati degli ignari clienti. Rischia per questo sanzioni pesanti negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, in Australia. In compenso, Uber ha esercitato le sue competenze hi-tech impiegando il software Greyball per tagliare fuori dalle chiamate utenti iscritti quando si trattava di investigatori degli enti che regolamentano il mercato o delle forze dell’ordine.
Uno si aspetterebbe che un’impresa che si sgrava di alcun costi di base, e vola leggera rispetto al fisco, fosse in grado di rendere più che dignitosi i guadagni dei propri autisti. Invece, alcune stime misurano una retribuzione netta di 0,48 euro a chilometro, e dunque giornate di lavoro che superano le otto ore e stento i cinquanta euro. Un’ulteriore limatura proviene dai soldi che frega Uber, la quale ha trattenuto nel 2016 più commissioni di quelle previste, una media di 900 euro ad autista. Gli autisti possono sempre sperare che un’inondazione, un terremoto o più lieve calamità renda più appetite le corse, visto che Uber applica il surge pricing, cioè una legge della domanda e dell’offerta rigorosa che aumenta il prezzo per gli utenti in funzione della quantità di richieste, indipendentemente da quale sia la causa che la determina.
Certo, può capitare la giornata buona per l’autista, che a quel punto, raggiunto l’obiettivo di guadagno, propende per propenderebbero per disconnettersi. Per contrastare questo atteggiamento aziendalmente improduttivo Uber usa i più subdoli mezzi di persuasione, rivolti alla sua squadra invece che ai clienti. Mettendo insieme un team di esperti di finanza comportamentale e uno di programmatori di videogiochi tenta di sedurre il guidatore che preme il tasto della disconnessione con esortazioni del tipo: “Puoi guadagnare 300 dollari questa settimana. Te ne mancano 10, vuoi mica fermarti adesso!”.
Uno si aspetterebbe che Uber testi con cura gli autisti e i loro veicoli. Ma si deve sperare che il criterio sia più rigoroso di quando Uber si muove in proprio, perché a Singapore, quando ha acquistato 1000 veicoli in leasing, ha optato per quel modello difettoso di Honda Vezel che aveva preso fuoco pochi mesi prima.
Uno si aspetterebbe che un’azienda cui si attribuisce il pregio di creare condizioni vantaggiose per gli utenti grazie alla concorrenza introdotta in un settore oggetto di monopolio o di concessioni difenda poi a spada tratta questa concorrenza. Invece, in Russia e Cina Uber si è fusa con i monopoli locali, Yandex e Didi Chuxing, mettendo a disposizione la sua tecnologia dentro assetti societari di cui le aziende nazionali possiedono la maggioranza.
Uno si aspetterebbe che il modello economico poggi la propria forza sulla redditività. Senonchè Uber, dopo avere perso due miliardi e mezza nel 2016, ci sta rimettendo un altro miliardo e mezzo nel 2017. E’sicuramente vero che i prezzi dei taxi (e in generale dei servizi che subiscono la concorrenza della “uberizzazione” ) contengono una “bolla”. Non meno vero, tuttavia, che la Uber pratica prezzi non sostenibili, che attualmente sono pagati per metà dal cliente e per metà dai finanziatori, tanto da poter affermare che le sue corse sono più sovvenzionate del trasporto pubblico americano: lo ha rilevato l’economista Steven Hill, il quale ha ipotizzato come realistico il fallimento di Uber entro i prossimi cinque anni. Per la verità, Uber continua ad attirare gli investitori, tant’è che il colosso giapponese delle comunicazioni Softbank vorrebbe acquistarne il 14%. Ma, situazione del tutto inusuale per un gigante della Silicon Valley, la proposta è nettamente inferiore alla quotazione di mercato. Softbank tira a uno sconto del 30%. Certo che se i tribunali si orienteranno allo stesso modo delle due corti inglesi che hanno dato ragione all’autista James Farrer, e cioè riterranno che i guidatori non sono microimprese ma salariati da remunerare in modo congruo e con relativa copertura previdenziale, scontare al 30% è ancora un affarone…
Uno si aspetterebbe che a Uber, pur tramortiti da questo Annus Horribilis fatto di rovesci economici e d’immagine, stiano orientandosi al business alternativo, e che i suoi ingegneri stiano lavorando sodo per realizzare la macchina self-driving. E però a Uber hanno i germe del parassitismo e preferiscono lavorino gli altri. Così l’azienda sta affrontando un processo per avere organizzato uno staff di spionaggio industriale a danno di Waymo, l’azienda di Google deputata allo sviluppo delle vetture senza conducente.
Uno si aspetterebbe che fra tante denunce di molestie verso le donne…figurati se nel mondo delle grandi imprese ne sono indenni! Beh, questa è l’unico aspetto su quale Uber non disillude. Prima della tempesta Weinstein, nello spettacolo, i riflettori erano puntati su pochi casi macroscopici, uno dei quali riguardanti l’amministratore Kalanick, costretto alle dimissioni da uno scandalo sessuale (sempre più gira la voce, però, che la ragione reale fosse il cattivo andamento dell’impresa).
Esistono, sotto il profilo dell’inadeguatezza sociale, anche fenomeni meno evidenti, come lo strisciante razzismo che regola le chiamate di Uber, di cui ho già parlato qui.
Quel che da tempo non si aspetta più nessuno è che gli stati stendano il tappetino rosso a un’azienda che spinge regole ed equilibri esistenti sino al punto di rottura. Dopo la clamorosa messa al bando di Uber da parte del Regno Unito, l’ultimo divieto (proprio questa settimana) proviene da Israele che qualificherà penalmente perseguibili (per violazione delle regole che disciplinano la sicurezza del trasporto pubblico) non solo gli autisti ma addirittura i clienti, regolandosi come alcuni paesi fanno riguardo alla prostituzione.
Sarebbe ingeneroso puntare il dito contro l’intero capitalismo digitale servendosi di Uber, che agisce platealmente da bad company, anche se consideriamo i parametri etici piuttosto flessibili delle grandi aziende tecnologiche. Egualmente sarebbe ridicolmente puerile ascrivere i problemi di Uber alla “lobby dei tassisti”, francamente improbabile quale forza egemone del pianeta.
E’ utile invece una riflessione sulla disruption. Con quest’espressione il marketing ha inizialmente designato la capacità di un’impresa di mettere a soqquadro un settore di mercato grazie alle tecnologie in grado di abbassare i costi, creando un’innovazione radicale e non soltanto incrementale. Successivamente l’espressione si è allargata (o forse ristretta) a quei casi in cui l’innovazione non si limita a stecchire le aziende direttamente concorrenti ma spazza via interi settori dell’economia che perdono la loro funzione agli occhi del pubblico. Così Whatsapp mette alla corde gli operatori telefonici, Google manda in pensione l’industria produttrice delle mappe e lo smartphone rende obsoleto l’orologio.
Una vera disruption, tuttavia, non è solo innovazione tecnologica ma innovazione tecnologica più profitto. Essere abili ingegneri non significa anche avere naso per gli affari. E’ la ragione per cui sette start up su dieci nella Silicon Valley hanno chiuso bottega. Il guaio è che se qualcuno la tiene artificialmente in piedi (nel caso di Uber i finanziatori che scommettono sul futuro monopolio, cioè il quadro opposto alla concorrenza che la disruption dovrebbe favorire), l’azienda innovatrice droga tutto il mercato, con prezzi irrealistici, e provoca la scomparsa di aziende e settori che, in una dinamica di mercato economicamente corretta, avrebbero ancora ragione di esistere.
Il nodo finale, poi, trascende il mercato. Quando entrano in gioco i diritti dei lavoratori, ad esempio, non è pensabile che sia una piattaforma informatica, creata per scopi commerciali, a determinarne la sorte. Un bambino può escalamare entusiasticamente “funziona”, se decolla l’aeroplanino che gli hanno regalato. Di una tecnologia non è lecito dire “funziona” se abbatte tutto quello che gli sta intorno, senza nessuna progettazione sociale.
Questo oggi frena Uber, che con ingegneristica ingenuità non ha ancora seriamente capito il problema. Speriamo che la sua ottusità (che sviluppo dell’intelligenza artificiale potremo attenderci da queste premesse) spiani la strada a un modello sostenibile di rapporti fra società civile e piattaforme tecnologiche.
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