Pubblicato sul Corriere della Sera del 20/12/2017 in occasione della mostra “Chiamati all’eredità” all’Archivio di Stato di Torino
Fare testamento è psicologicamente più impegnativo che compilare la lista delle spesa, eppure si potrebbe tranquillamente scrivere l’uno sul retro dell’altra. Al compimento dell’Unità, l’Italia decise di adottare l’anti-formalismo del codice napoleonico e rese valida la volontà anche senza l’intervento del notaio, purchè autografa, firmata e datata. Dopo oltre 150 anni non si può certo rimproverare al popolo di essersene approfittato: nemmeno un italiano su 10 lascia un testamento, contro la metà degli inglesi, ad esempio. Forse è uno scaramantico fastidio mettere la morte nel conto delle ipotesi. Né è un problema di classe. Il 98% delle imprese ha natura familiare ma non più del 14% arriva alla terza generazione, spesso perché il capostipite non ha provveduto a regolare il passaggio generazionale, prevenendo gli scannamenti fra i rampolli. D’altronde il nostro paese, come da tradizione latina e diversamente dal mondo anglosassone, se non nella forma ostacola nella sostanza la volontà individuale, prevedendo che sino ai tre quarti del patrimonio possano essere reclamati dalla famiglia, compreso persino il coniuge separato. Altra forma di arretratezza rispetto all’evoluzione del diritto successorio nel mondo: non sono ammessi accordi di rinuncia preventiva all’eredità. La nemica dei giorni nostri? La badante! Chissà quella cosa fa firmare a nostro zio! Eppure premiare chi ha reso umili servigi non è certo una novità. Francesco Bacone gratificò la servitù della propria casa e della terra. La mostra di Torino ripropone i testamenti di uomini illustri, certuni come quello di Enrico De Nicola profondamente caritatevoli. Ma per respirare umanità non troppo corrosa dalla patrimonializzazione sono meglio le volontà dignitose (e quand’è il caso schiettamente rancorose) dei miserabili. Anni fa ne pubblicò uno splendido florilegio l’editore Sellerio, “Essendo capace di intendere e di volere”, tutti testamenti profondamente espressione di vita più che di trapasso, anche con quegli imbarazzi pratici che ne discendevano. “Quando sarò morto dovete cercare il mio testamento qui presente dietro all’armadio. Se non lo cercate dietro all’armadio non lo trovate e allora è inutile che lo cercate”. Il testamento, prima che con le ricchezze, ha a che vedere con la memoria, la coscienza, il legame. La sua natura è letteraria non meno che giuridica. “Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi”. Il biglietto d’addio di Cesare Pavese non era tecnicamente un testamento. E però, come formula obbligatoria per tutti gli altri, non sarebbe male.
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