L’ultimo, appena pochi giorni fa, a buttare lì che il Duce fece anche cose buone è stato Salvini. Lo aveva già detto Berlusconi, lo affermano continuamente personalità politiche minori senza che ne venga loro danno d’immagine, come sarebbe avvenuto in passato. Viene considerato un evento rilevante che un’organizzazione come Casa Pound, che si richiama senza perifrasi all’ideologia fascista, riesca a spuntare più di qualche consenso. Dal mio punto di vista, ancora più importante è la totale ignoranza che i giovani e i giovanissimi hanno della storia, pure quella del Novecento. Del fascismo, man mano che scompaiono coloro che vissero sotto il regime, rimane un’immagine indistinta, non disgiunta da qualche elemento astrattamente positivo, irrimediabilmente macchiata solo dalla guerra e dalle leggi antiebraiche. Se non fosse stato per quelle! Proviamo allora a tornare indietro di esatti novant’anni ( lo facciamo, casualmente, proprio nel giorno in cui esce il film nelle sale cinematografiche che immagina un ritorno di Mussolini oggi), prima che si potesse anche soltanto immaginare la campagna antisemita e quando pure la guerra era un’ipotesi lontana, e anzi il pensiero della guerra che disturbava, giustamente, era quello catastrofico di quella appena trascorsa. Era dalle ceneri della disfatta che lo strascico della violenza, il senso di rivalsa, il timore bolscevico, la sfiducia verso la classe dirigente e l’orgoglio nazionalistico ferito poterono edificare l’ideologia fascista, che poi funse da modello di esportazione per altri paesi, inclusa la Germania.
Oggi ci dichiariamo stupiti di quanto veloci siano i cambiamenti politici e sociali, e denunciamo le nuove tecnologie quali perturbatrici di quest’accelerazione. In realtà, il fascismo trasformò fulmineamente la società italiana. Nel 1919 era un fenomeno politico men che marginale. Nel 1922 realizzò la marcia su Roma. Tra il 1925 e il 1929 varò la gran parte delle leggi che rivoluzionarono l’assetto dello stato e della vita quotidiana. Quel che accadeva nel 1928, e qualche anno prima e dopo, è dunque un buona postazione per osservare quel che il fascismo fu, quand’anche si volessero considerare inopinate escrescenze l’asse con la Germania e le leggi razziali.
Giacchè si avvicina la data delle elezioni politiche 2018, e si discetta di quanto sia contorta la legge elettorale, si può per prima cosa rammentare quella, veramente snella, che il regime promulgò nel 1928, e che conobbe la prima applicazione nel 1929. Niente liste, ma un unico grande listone, di 400 candidati selezionati dal Gran Consiglio del Fascismo tra gli 800 proposti dalle cooperazioni. Il popolo aveva la facoltà di votare sì o no al listone in blocco e secondo spirito plebiscitario, nel 1929 come nel 1934, votò quasi all’unanimità per il listone. Del resto non era neppure chiaro normativamente cosa sarebbe accaduto in caso negativo.
L’unica dichiarazione di voto contraria alla legge del 1928 fu pronunciata dall’anziano leader dell’Italia liberale:
“Questa legge la quale, affidando la scelta dei deputati al Gran Consiglio Fascista, esclude dalla Camera qualsiasi opposizione di carattere politico segna il definitivo distacco del regime fascista dal regime retto dallo Statuto”.
“Verremo a prendere lezione da lei” lo interruppe Mussolini.
“Onorevole Mussolini, lei è troppo modesto. Io non mi sono mai sognato di avere una Camera come la sua” replicò caustico il vecchio statista.
I partiti erano già stati cancellati nel 1926 dalla legge che sciolse tutte le associazioni di opposizione politica al fascismo. Quanto alla stampa, i giornali non erano stati chiusi ma normalizzati secondo scrupolose regole deontologiche, dalle quali ebbero cura di non discostarsi se non per eccesso (dal 1935, poi, le famose veline li riducesse a fedeli riproduttori di comunicati stampa). Proprio nel 1928, il 10 ottobre, in un discorso a settanta direttori di quotidiani convocati a Roma, Mussolini chiarì il suo pensiero: “In un regine totalitario la stampa è un elemento di questo regime…Ecco perché tutta la stampa italiana è fascista e deve sentirsi fiera di militare compatta sotto le insegne del Littorio. Partendo da questo dato incontrovertibile si ha immediatamente una bussola di orientamento per quanto concerne l’attività pratica del giornalismo fascista. Ciò che è nocivo si evita e ciò che è utile al regime si fa”.
Se il fascio littorio venne elevato, nel 1926, a simbolo dello stato e ornamento degli edifici pubblici, il manganello rimase un suggestivo emblema del fascismo originario, quando le aggressioni agli oppositori politici o alle sedi dei partiti avvenivano al canto delle strofe di “San Manganello”.
O tu santo Manganello
Tu patrono saggio e austero
Più che bomba e che coltello
Coi nemici sei severo
Manganello, manganello
Che rischiari ogni cervello
Sempre tu sarai sol quello
Che il fascista adorerà…
La violenza squadrista, dopo il 1925, si era tuttavia attenuata, perché Mussolini aveva preferito inglobare le organizzazioni fasciste nello stato. Prendendo spunto da alcuni falliti attentati al Duce, per stroncare l’opposizione politica creò nel 1926 il Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, che esordì comminando nove mesi di detenzione a un tal Giuseppe Piva per avere esclamato, riferendosi a Mussolini, “Li mortacci tua, ‘sto puzzolente”. In 18 anni il Tribunale inviò al confino (per il quale non era necessario un processo) 12.000 persone e 5500 ne condannò al carcere (raramente con pene lunghe), fra i quali circa 4000 operai e 37 casalinghe.
Il controllo dell’informazione si accompagnava al dominio dell’educazione, che fu l’unico vero contrasto nel rapporto con la chiesa, con la quale stipulò i Patti Lateranensi nel 1929. Mussolini irreggimentò la scuola, nella quale fra l’altro veniva introdotto il testo unico direttamente approvato dal governo. In un suo discorso, già del 1925, esigeva “che tutta la scuola, in tutti i suoi gradi e i suoi insegnamenti, educhi la gioventù italiana a comprendere il fascismo, a rinnovarsi nel fascismo e a vivere nel clima storico creato dalla rivoluzione fascista”. Avendo però poca fiducia negli insegnanti, pensò di marcare l’infanzia e l’adolescenza una struttura pedagogica, più nettamente connotata in senso paramilitare, l’Opera Nazionale Balilla, che sequestro qualsiasi spazio concorrenziale per la gestione del tempo extrascolastico. In teoria non era obbligatorio esservi iscritti ma il sospetto di antifascismo o quanto meno di scarsa lealtà alla causa che sarebbe calato sui genitori suggeriva di conformarsi.
Al Prefetto di Milano
Mi informi se sia vero che il potestà di Vidomondrone, tale Agnelli Luigi, ha il figlio non iscritto nell’ONB.
(richiesta di Mussolini)
Obbligatorio invece, ai fini dell’insegnamento, fu il giuramento di fedeltà al fascismo cui vennero sottoposti i professori universitari, nel 1931. Come è noto, furono in 12 su 1200 a rifiutarsi, costretti quindi ad abbandonare la cattedra.
Sotto il profilo economico, le battaglie significative avviate dal regime, a partire dal 1926, furono la stabilizzazione della lira, la battaglia del grano, la ruralizzazione e la campagna demografica.
La politica monetaria fu imposta da un evento internazionale, la sospensione della convertibilità in oro delle valute e il passaggio a un sistema di tassi flessibili: per la volatilità economica e l’inflazione che ne seguirono i governi si impegnarono a rendere convertibile la propria valuta a un tasso fisso in oro o altre valute. Il tasso di cambio adottato da Mussolini, nel 1927, fu la simbolica “quota novanta” (cioè un cambio di novanta lire per sterlina, lo stesso che Mussolini si era trovato nel 1922) che implicava una rivalutazione del 65%. e fu considerato fuori dalla sostenibilità del paese, anche da un economista del calibro di Keynes, il quale scrisse: “la lira non obbedisce nemmeno a un dittatore, e non si può per questo darle l’olio di ricino”. Eppure la moneta ubbidì, ma con un costo notevole. La diminuita competitività dei prezzi delle esportazioni ridusse queste ultime del 9% mentre il commercio mondiale aumentava del 12% , la produzione industriale calò dell’8% e il Pil del 3% . Il peso venne accollato essenzialmente agli operai, imponendo una riduzione di salari del 20%, divisa tra il 1927 e il 1928, non completamente riassorbita dal calo dell’inflazione. Ma al fascismo non interessava troppo distinguere, poiché nell’astrazione dell’ordinamento corporativo che aveva sostituito la dialettica di classe nei rapporti di lavoro, sia imprenditori che operai erano etichettati come “produttori”.
La battaglia del grano ebbe come scopo l’autosufficienza alimentare del paese, che riusciva a coprire soltanto l’80% del fabbisogno interno. Si introdussero il dazio sul frumento (che però era già stato utilizzato, senza troppo successo, nell’Italia liberale) e agevolazioni fiscali per chi avesse accresciuto la resa per ettaro senza eliminare le altre colture. Ma nei fatti il risultato venne raggiunto a scapito della zootecnia e di altre colture essenziali e l’agricoltura tutta rallentò parecchio il suo incremento rispetto al periodo 1897-1925, aumentando nel contempo lo squilibrio tra il Nord e il Sud. Non si poterono del resto impiegare nuove terre perché la legge sulla bonifica integrale non ebbe sorte troppo diversa da quella ch avrebbero avuto le grandi opere nella seconda Repubblica e degli otto milioni di ettari da recuperare che sbandierava, il fascismo, di suo (cioè non limitandosi a migliorie di quelli già bonificati sotto i governi liberali) ne conquistò poco più di 500.000: ostacolato dalle inadempienze dei consorzi privati (con i quali Mussolini tenne un atteggiamento assai morbido, il suo rapporto privilegiato con la grande proprietà fondiaria che non s’incrinò mai) che intascavano i contributi senza procedere ai lavori e seppellito dal dirottamente della spesa pubblica verso altre destinazioni, specialmente militari.
Il fallimento delle bonifiche contribuì anche a mandare all’aria la preventivata ruralizzazione del paese, che andava in uno con la volontà di combattere l’urbanesimo, temuto come luogo potenziale di aggregazioni operaie ed esplicitato come luogo di decadenza e di sterilità (altro perno mussoliniano fu la campagna demografica sostenuta anche da una tassa sugli scapoli).
Durante il fascismo, sempre prescindendo dalle guerre e dagli ebrei (ma alla fine come si fa a prescinderne?) e prescindendo anche da quel suo mood particolare, accaddero certo molte altre cose. Rimanendo al governo per 18 anni, fu fisiologico che il duce si trovasse ad affrontare, crisi economiche e ammodernamenti infrastrutturali del paese, e fisiologico che alcune di queste iniziative si concludessero positivamente. Fisiologico che in Italia, come nel resto del mondo, specie in quegli anni fosse prioritario confrontarsi in qualche modo con lo stato sociale e ognuno ne mise insieme pezzi: nel ventennio, ad esempio, nacque la reversibilità della pensione al coniuge (la pensione invece già c’era). Ma per giudicare il fascismo (in senso etico o anche semplicemente politico) bisogna osservare quel che ne fu peculiare. Non mi interessa qui, oggi, darne un esplicito giudizio di valore. Solo mi piacerebbe, ogni volta che un politico dice che Mussolini fece anche cose buone, che precisasse (con esattezza e dettaglio, magari) quali, in particolare.
Corrado Augias, Il Venerdì
Francesca Rigotti, Il Sole 24 ore
La conclusione del conduttore di Fahrenheit – Tommaso Giartosio
Queste sono le tre ragioni per cui ci si offende:
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Hai detto male di me
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Hai violato un confine
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Non ti sei accorto di me come, e quanto, avresti dovuto
Da non fascista dico che dovremmo riflettere non sul fascismo di 70 anni fa ma di quello che ci oppime oggi con 4 governi non eletti dai cittadini ma dal presidente della repubblica.
Quanto a cosa ha fatto Mussolini se vuole accomodarsi vada a leggere quanto segue:
COMPARAZIONE FASCISMO – SECONDA (TERZA?) REPUBBLICA
Oltre al genere di pensiero “mah, alla fine anche il duce il suo l’ha fatto” esiste un altro genere diffuso, quello ripreso nel commento sopra che si sostanzia in “ma che stiamo a perdere tempo col fascismo, occupiamoci degli oppressori di oggi!” A me sembra che “riflettere” sia sulla storia che sul futuro sia tutt’altro che incompatibile. Avrei qualche dubbio sulla similitudine, perché una cosa è la patologia di un sistema in cui si vota (andiamo a votare, poi cambiano alleanze o i parlamentari cambiano fazione e ci troviamo un governo che non abbiamo eletto) e una cosa è la regola di un sistema in cui non si vota o si vota un’unica lista. Per le comparazioni mi sono affacciato sul testo che dice e ne vedo di eterogenee e numerose ma gliene propongo io una di un solo rigo. Se avesse cominciato uno scritto pubblico nel 1928 con “da non fascista dico” si sarebbe presto trovato al confino. Non dimentichi di inserire anche questo!