Ogni settimana le recensioni di Michele Raviolino sulle trattorie
Mi trovavo nella sala d’attesa del pronto soccorso, non perché mi fosse capitato qualche accidente
ma perché il caffè delle macchinette viene proposto a un prezzo molto vantaggioso, quando mi sono felicemente imbattuto nel vecchio amico Oreste, che si trascinava con le flebo dal suo reparto di degenza per la stessa occasione di risparmio. Ha avuto una brutta avventura Oreste, un testa-coda in auto che l’aveva mandato in coma per settimane: per risvegliarlo hanno usato quella tecnica moderna di sollecitarlo con qualche stimolo che lo inebriava, e dopo avere vanamente tentato con la voce della moglie e delle figlie hanno fatto bingo con l’odore di pancetta fritta, tempo mezz’ora di spadellate e non solo era bello vigile ma stava pure a fare il difficile col sale. Il soggetto ideale per ottenere una dritta su un locale per stomaci forti. Alla mia precisazione che mi sarebbe piaciuto un tocco, giusto uno, creativo mi ha indirizzato senza esitazioni su “Flatus”. “Ha una forma di degustazione specializzata che lascia a bocca aperta” ha aggiunto “Non te lo dico per non rovinarti la sorpresa”. L’informazione ulteriore che si tratta di un posticino a gestione familiare è stato il propellente finale per mollarlo seduta stante e proiettarmi verso la meta, sita in un vicoletto trucido della periferia, che è un altro tocco charmant, di quelli che mi fanno rizzare i peli dell’esofago.
Entro da “Flatus”, sbircio sul retro l’arrivo di diversi camioncini di fornitori di ogni genere alimentare e penso che ci sarà da divertirsi. Colgo anche che c’è un dettaglio strano, ma preso oramai come sono dall’imminenza del desco non riesco a metterlo a fuoco. Flatus è spoglio il giusto, cinque o sei tavolacci, apparecchiature impalpabili, rustico, molto legno, un paio di credenze di modernariato. L’entusiasmo si sopisce quando, accomodatomi, vengo raggiunto dall’oste che mi spiega le regole del gioco: pochissimi piatti del giorno, nudi, ma con la degustazione di un unico condimento proposto in più declinazioni. Il via vai dei fornitori fuori dalla bottega mi aveva illuso diversamente però mai disperare. Ricordo un ristorante magnifico che tagliava sul posto in sequenza tredici piccole portate di pesce crudo condendole con altrettanti varianti regionali di olio e si trattava di un’esperienza memorabile. Da quel che ho capito il meccanismo è affine e sono curioso di conoscerlo. L’oste si presenta con un gambo di carciofo bollito. Cerco di camuffare il malumore attaccando bottone: “Ho saputo che qui è a gestione familiare” “No. E’ molto di più” ribatte quello con un sorrisino traboccante autostima “E’ a digestione familiare. Vieni zio Nicola”. Dalla cucina arriva un signore allampanato e sdentato per tre quarti mentre l’oste mi spiega: “I piatti semplici traggono la loro forza dal condimento, che deve essere altrettanto semplice. Invisibile. Aereo. Non deve congiungersi con il cibo. Deve volarci sopra. Benvenuto dunque nel primo ristorante con degustazione degli aliti”. Così mentre addento il mio gambo di carciofo zio Nicola si curva nella linea di intersecazione tra la forchetta e l’accesso alle papille gustative e insuffla dolcemente, ma con decisione, quel che ancora si aggroviglia dentro lo stomaco della sua insalata di lingua e cipolle crude. Seguono: foglia di lattuga con alitata di Nonno Gigi che digerisce fegato alla veneziana; barbabietole rosse con alitata di Donna Letizia (moglie del titolare) che digerisce lumache all’aioli; filettino di nasello lesso con alitata di nonna Sandra che digerisce la bagna cauda (da urlo!); due bucatini (due) con alitata dell’oste- il piatto dello chef- che digerisce ziti al gorgonzola; per concludere con l’azzardata macedonia di frutta con alitata del piccolo Ennio, cinque anni, che digerisce baccalà Gomes di Sà alla moda di Lisbona (l’oste ci tiene a rimarcare che appena avrà l’età per tirarsi fuori dalle balle il ragazzino andrà a studiare cucina all’estero e vuole da subito educarlo al cosmopolitismo). E quei carichi di derrate? Servono per la produzione, mi spiega il taverniere, non è che queste ciatate vengono fuori da sole. Mi affiora anche il dettaglio su cui avevo sorvolato: tutti i fornitori avevano sul viso una mascherina anti-inalante. Il caffè, e anche l’ammazzacaffè, sarebbero offerti dalla ditta ma declino la cortesia visto che hanno la bontà di avvertirmi che il flatus in circolo nel corpo si approssima ormai verso il basso. Fanno trentotto euro e ventuno centesimi, circa sette per olezzo. Siccome ero l’unico avventore mi accompagnano gentilmente tutti alla porta ma non mi fai mai tutto questo piacere sentirmi il fiato sul collo.
Pensavo di cenare fuori ma……stasera ceno a casa! 😉