“Questa è la mia lettera al mondo che non ha mai scritto a me”. Comincia con questi versi, forse i più conosciuti di Emily Dickinson, il gioco del continuo affaccio testuale fuori campo sulle scene del film “A Quiet Passion”. E nel giudicare l’opera, da subito si pone l’obbligo critico di non regalare al regista Terence Davies meriti ascrivibili esclusivamente alla grandissima poetessa americana e alla capacità della sua opera, solo apparentemente semplice, di suscitare brividi in chi l’ascolta recitata. Se infatti è vero che il biopic su un personaggio
la cui vita è stata segnata dalla povertà di eventi, si presenta come sfida impegnativa è anche vero che questo handicap viene parzialmente colmato dalla facilità di appoggiarne parassitariamente la forza sull’inevitabile co-autorialità testuale della Dickinson. Terence Davies è un regista intellettualmente onesto, esteticamente rigoroso, non del tutto metabolizzato dall’industria cinematografico, propenso a immettere la sua esperienza interiore nel mood delle opere e buon osservatore dell’animo femminile: in A Quiet Passion parte da un’impostazione che sarebbe corretta, focalizzarsi su una sorta di biografia umorale, e cioè declinare, nella pochezza di eventi storici, i fattori emotivi che hanno inciso sulla vita di Emily.
Non pare tuttavia che l’operazione sia riuscita, e per di più scappa sotto diversi profili al genere cinematografico. La preferenza di Davies per i primi piani in posa e le composizioni sin troppo ordinate di personaggi disposti nello spazio sono una pinacoteca più che un film. Quanto ai dialoghi, il regista ha spinto all’estremo la scelta di trarli dallo stile aforistico e sentenziale delle lettere di Emily, tirando fuori una teatralità dialettica improbabile e autocompiaciuta che a un certo punto somiglia involontariamente a quella provocatoriamente barocca di Woody Allen e Diane Keaton in Amore e Guerra. Per di più si registra una frizione dissimetrica tra la placida (quasi sempre eccessiva) dilatazione del tempo della macchina da presa che si assesta sulle tavole pittoriche delle inquadrature e la frenesia brusca con cui i personaggi sostengono le loro schermaglie verbali. Non è l’unico difetto di omogeneità: gli stessi personaggi sembrano estrapolati da copioni diversi, in particolare la sfaccettatissima figura del padre (forse la più riuscita e realistica) e quella della madre, svaporante in una cornice esageratamente onirica. Alla resa dei conti il film, parco e sin didascalico anche nei costumi, si affida a una sintassi che, quando non è squilibrata, è elementare.
La trama, lo abbiamo detto, è quel che deve essere e ruota intorno al sentire di Emily, che scelse di recludersi dentro la famiglia coltivando in privato e nel suo abito bianco quell’anticonformismo profondo che nell’età giovanile ne faceva una ribella scolastica. La famiglia Dickinson rimase indissolubile e autolimitante, puritana, scolpita nella personalità complessa del capofamiglia (uno splendido e lincolniano Keith Carradine), riprodotto imperfettamente nella vivace mediocrità del figlio Austin. Nella natale villa di campagna di Amherst, nel New England, Emily sceglie di recludersi e coltivare i suoi squilibri d’umore (la cui forza d’urto viene trasmessa perfettamente da Cinthya Nixon) e la sua passione poetica, che sarebbe sfociata in vita nella pubblicazione di sole sette poesie delle millesettecento amorevolmente rilegate. Sognò amori impossibili forse più per liberarsi dalla scoperta della carnalità che per inseguirla, e assunse l’anacronismo come parametro della sua condotta. Ci si domanda alla fine se il film ci faccia scoprire veramente qualcosa sul personaggio che già non si sapesse, e tutto sommato la risposta è negativa: anche se l’obiettivo fosse quello più limitato di trovare una via emotiva per identificarsi con Emily, poiché le scelte stilistiche di Davies rendono il film piuttosto freddo (torto principale, essendo al centro un poeta), né era il caso di riscaldarlo indugiando sull’epilessia e sulle agonie in punto di morte, che ci vengono invece propinate senza sconti. Va riconosciuta una certa correttezza filologica (non però nella scelta delle poesie, trascurando ad esempio l’intero, essenziale filone della natura) e una capacità di ben rendere (anzi, eccedendo nell’enfasi) il trasporto che Emily riceveva dal contatto con le poche persone care e lo sconvolgimento che le causava, ogni anno di più, la semplice percezione nello spazio domestico di una presenza estranea, peggio se bendisposta nei suoi confronti. Nonostante le metta in bocca una ventina di volte le sorelle Bronte, e pagando il dazio delle ridondanze esplicitanti delle sorella, il regista ci consegna l’immagine di un artista che, prendendo in prestito una bella espressione che Fernando Pessoa applicò ad altro contesto, potremmo infine definire, quanto a formazione culturale, una erudita della sensibilità.
A Quiet Passion
Terence Davies
Film
Votazione finale
I giudizi
Perfetto
Alla grande
Merita
Niente male
Né infamia né lode
Anche no
Da dimenticare
Terrificante
Si salvi chi può
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