Il primo censimento da fare è quello dei raccomandati. Alla televisione e nella pubblica amministrazione. Così disse Di Maio, poco dopo la formazione del governo, interpretando il sentire spesso manifestato dal suo elettorato. Solo che la questione dei raccomandati
sta diventando una nemesi per i cinque stelle. Non ha reso immediatamente, lo stesso Di Maio, stipendiati dallo stato un paio di compaesani? E che dire di Torino, dove l’ex portavoce della sindaca è indagato per averle chiesto (estorsivamente) di raccomandarlo da qualche parte, e il più stretto collaboratore si era già dovuto dimettere perché aveva telefonato al capo dei vigili per raccomandare (non lo multate!) un amico che non aveva timbrato il biglietto? Certo, con la Maglie si alza la voce: no ai raccomandati in Rai! Però l’azienda è stata bella e lottizzata, e lo stesso Freccero un po’ raccomandato lo è (e con poca eleganza ha comprato per la Rai, ben pagandoli, i vecchi spettacoli dell’ex capo dei raccomandanti). Salvini, d’altronde, non è certo da meno: basti pensare all’assunzione nel suo staff di comunicazione del il figlio di Marcello Foa (ma insomma, nella Lega Bossi raccomandava il figlio; e Di Maio stesso, se non è un raccomandato di Grillo che cos’è?).
Ora, si potrebbe risolvere tutto qualunquisticamente e dire: visto? Siete uguali agli altri oppure vi siete dovuti arrendere all’evidenza. Purtroppo l’urgenza di trasformare tutto in una plusvalenza elettorale impedisce sempre di andare oltre gli episodi contingenti e pruriginosi. Sarebbe anche facile tuonare una volta di più contro il malcostume nazionale, farne una questione etnica. Ma forse sarebbe il caso di fermarsi un attimo di più sul punto partendo dalla seguente domanda: immaginiamo che, da domani, grazie all’intelligenza artificiale si potesse cogliere in fallo, con una probabilità dell’80%, quelli che ottengono qualcosa per raccomandazione e indicarli- come minimo- al pubblico ludibrio, o addirittura sanzionarli. Alzi la mano chi non è certo che il referendum per approvare la norma applicativa verrebbe disertato. Corre l’obbligo di interrogarsi seriamente perché.
Partiamo dal principio che la vita sociale è modellata ab origine dal principio della raccomandazione. C’è persino una forza evoluzionistica nella cooperazione chiusa, nel favoritismo rivolto verso membri di un gruppo. Nella misura in cui il favoritismo rientra nella ricerca di riconoscimento dell’Io e nell’instaurazione del legame, è inevitabile che esso sopravviva alla modernizzazione, se definiamo quest’ultima come l’avvento generalizzato di forme di comunicazione e pratiche di scambio che si fondano, invece che su una relazione personale, sulla disponibilità di risorse misurabili e oggettive.
Del resto, nemmeno la società più rigidamente economico-utilitaristica riesce a sopravvivere senza almeno fingere di considerare le persone come entità distinguibili. E’ per questo che tutti sperano di ottenere un trattamento di favore in ambito commerciale, e tutti in qualche modo lo concedono o simulano di farlo. Lo sconto non è una raccomandazione? “Mi raccomando. Sono un cliente!”. Chi di noi non prova a esercitare questa forma di moral suasion (pensando che davvero sia morale: che stronzo, una vita che vado lì e non mi ha tolto un centesimo!). Naturalmente c’è una differenza (cito tutti episodi veri) fra il proprietario di una pizzeria che fa alzare due avventori mentre consultano il menu, dopo aver atteso il loro turno, per far sedere dei cari amici appena arrivati (“Scusate, sono persone di famiglia”) e il professore universitario che chiama lo studente per l’esame e, quando gli dicono che è stato appena bocciato da un assistente e se ne è andato andato via, impreca: “Porca miseria! E adesso che gli dico al padre? Andatelo a cercare!”. Alla fin fine, il primo gestisce un’attività propria, e se una sera gli gira fa entrare solo quelli col naso all’insù, mentre l’altro è vincolato dalla deontologia del dipendente pubblico. Ma se poi i due episodi (questo non è accaduto però mi viene comodo per l’esempio) avessero riguardato la stessa cerchia, e il padre in questione fosse stato il povero pizzaiolo, il professore- dopo essersi strafogato per anni le sue quattro stagioni appena varcato l’uscio del locale e a prezzo ridotto- doveva poi disinteressarsi del figliolo di quel brav’uomo? metterlo almeno a suo agio, perché studia, caspita se studia, ma è tanto emotivo…
Bisogna partire da lontano, per la storia della raccomandazione: parrebbe, addirittura da una tavoletta assira di 2500 anni addietro; ma perlomeno dalle grandi religioni, se vogliamo stare più vicini. Che si trattasse del “popolo eletto” (un blocco di raccomandati: all’epoca. Poi hanno attraversato una lunga Storia nella quale erano raccomandati al contrario) o del fedele che, per avere dedicato un tempo congruo alla preghiera, otterrà di scostare- con garbo o meno, a quel punto sarà irrilevante- l’anima deviata che con il suo passo ansimante e penoso rallenta la sua ascesa verso il paradiso: “Permette?…”
Nei paesi che praticano il culto dei santi, e nei quali si confida che esseri superiori si facciano blandire da un cero o dall’offerta di un lungo percorso pedonale, la secolarizzazione mai ha reciso il legame con la necessità di avere “santi in paradiso”. Solo li consegna più cinici e panciuti, oltre che dotati di un indirizzo civico e camicie inamidate.
A fronte di culture che continuano a fondarsi sul principio della raccomandazione etnica e castuale, la democrazia dovrebbe realizzare la scomparsa di quel particolarismo e l’eguaglianza meritocratica. La parola meritocrazia, come ad esempio la parola “impressionismo”, è una di quelle che deve il conio a un suo detrattore: fu un neologismo del sociologo Young, che nel 1958 teorizzò come avanzare per meriti rappresentasse, in realtà, la riproduzione del ceto dominante, che detta i criteri, puramente convenzionali, per stabilire quali siano quei meriti e alleva i suoi rampolli nella coltivazione delle virtù collegate, mascherando l’oppressione sociale dietro la presunta oggettività di una misurazione che quantifica gli esseri umani e scredita i numerosi perdenti.
La raccomandazione, dunque, non necessariamente verrebbe a rinforzare il dominio di classe (che non funziona esattamente per raccomandazioni, bensì per auto-raccomandazioni: il tizio è figlio del Tale, dunque accede agli strumenti formativi e agli ambienti privilegiati e poi si inchinano dinanzi al suo status) ma lo scalfirebbe, concedendo chance a soggetti che sarebbero esclusi da un simile circolo chiuso.
Si potrebbe tuttavia obiettare che il patronato, a sua volta, è una perpetuazione del sistema, poiché blandisce e divide la massa soggiogandone i singoli con la possibilità (e ogni tanto l’elargizione) di una raccomandazione. Entriamo così nell’area del clientelismo, che è una forma specializzata di raccomandazione e una ultra-millenaria (questa sì, mica come la democrazia in Francia) modalità pratica di gestione del potere.
Il clientelismo è nella sostanza il trattamento di favore in cambio di un appoggio elettorale, e conosce vari gradi di intensità: si fa prendere il posto in comune a Peppino, così si acchiappa il voto di tutta la sua famiglia, si promette un appalto a qualche imprenditore ottenendone il finanziamento della campagna elettorale. Come si può vedere, la caratteristica precipua (mantenere il sistema politico in uno stato di ininterrotta campagna elettorale) non differisce da quella dell’attuale gestione mediatica della politica. Ma tralasciamo questo profilo, dando per scontato che sia meglio- per avere i voti- lasciar affogare i migranti in mare invece che dare il posto in comune a Peppino e proseguiamo.
Il picco immorale del clientelismo è il versamento delle tangenti (è già il caso dell’imprenditore che abbiamo descritto). Ciò traccia una linea di demarcazione tra la raccomandazione pagata e la raccomandazione per simpatia (come dicevamo prima, la raccomandazione in teoria si opporrebbe al mercantilismo). Proprio gli esempi che abbiamo fatto rivelano tuttavia quanto il confine sia labile. Il voto di scambio è una forma di pagamento, anche penalmente rilevante; e il finanziamento elettorale dei privati, in assenza di finanziamento pubblico, è una fonte normale e necessaria di dotazione economica dei partiti. Certo, la legge esige che sia trasparente: ma di fatto non causa alcuna incompatibilità o conflitto d’interessi a venire. Quindi la tangente può facilmente annacquarsi in una raccomandazione. E l’altro esempio (la strumentalizzazione di persone, eventi e gruppi di persone per guadagnare consenso) dimostra che la democrazia è sempre malata quando i candidati rinunciano a contendersi sull’elettorato sulla base di un onesta contrapposizione di idee.
La raccomandazione appare particolarmente perniciosa in due circostanze: quando il raccomandato, per una ragione diversa dalla sua idoneità, viene collocato in un posto nel quale può fare danno per incompetenza; e quando il raccomandato, per il solo fatto della raccomandazione, preclude al non raccomandato di ottenere quella stessa posizione. Nella prima ipotesi sarebbe, al minimo, il caso di associare il raccomandante alle future pretese risarcitorie verso il raccomandato. Il secondo è effettivamente il più odioso, ed esigerebbe una rigorosa regolamentazione dei concorsi pubblici.
Più lievi sono i casi in cui il raccomandato non toglie nulla agli altri, i quali potrebbero al massimo irritarsi in termini comparativi. Un amico di gioventù, davanti ai miei occhi, ricevette in una busta la tesi di laurea in giurisprudenza già confezionata indirettamente da un professore, grazie ai buoni uffici di sua madre. Eppure il ricordo dell’emozione che la madre provò quando il figlio venne gratificato di undici punti per la tesi fu talmente assurdo da suscitarmi tenerezza e divertimento, e non mi risulta che il seguito professionale abbia iscritto il mio amico tra i giuristi di eccellenza. La vita di solito riequilibra di suo: oppure squilibra malamente, ma di rado per via delle raccomandazioni. Ciò non toglie che la raccomandazione produrrebbe danni ancora più limitati se, come auspica il politologo Michael Walzer, non vi fossero beni che hanno una dominanza assoluta; cioè se la ricchezza non favorisse l’accesso al potere e alle cariche pubbliche, e se le cariche pubbliche non favorissero l’istruzione e così via. Cioè, se non girasse più o meno sempre dalle stesse parti.
Nonostante la prossimità effettiva sia in declino, mai la raccomandazione è stata teorizzata su così larga scala come con i social. “Ti spiacerebbe mettere mi piace alla mia pagina o far circolare questo messaggio?” (a proposito, voi che state leggendo quest’articolo, se aveste voglie di diffonderlo..)
Quanto al riavvicinamento fisico si moltiplicano iniziative di networking nelle quali imprenditori e professionisti si incontrano in orari improbabili per poi raccomandarsi reciprocamente alle rispettive clientele (un notevole problema è che, contrariamente a quel che si potrebbe pensare, le raccomandazioni bilaterali vengono meglio quando distano nel tempo. Chi in quel momento è troppo focalizzato sull’obiettivo di essere raccomandato conserva poco spazio mentale per raccomandare).
Se qualcosa di negativo c’è in questo incremento è soprattutto nella sostanziale spersonalizzazione che lo accompagna: non si raccomanda qualcuno perché fa parte della tribù ma si allestiscono piccole tribù pur di far circolare la raccomandazione. Non c’è nulla di comparabile con il rito amicale iniziatico dei due biglietti per la partita (o per il teatro)
Al tirar delle somme, per giudicare moralmente la raccomandazione bisognerebbe prima di tutto aver presente il contesto. Possiamo capire bene come il cruccio maggiore di Schindler fosse quello di non aver potuto “raccomandare” più uomini salvati di quanto pure riuscì a fare.
La raccomandazione è uno di quei crocevia tra il peggio e il meglio dell’umano, o più semplicemente un suo concentrato. Dal punto di vista della psicologia sociale, offre un paracadute agli esclusi, che possono salvaguardare la propria autostima dando per certo l’inquinamento dei criteri di selezione, e non scalfisce le certezze intime di chi viene spinto in alto, che sempre racconterà a se stesso che tutti fanno eguale, e che grazie alla “spintarella” (si noti il vezzeggiativo) comunque lui ha solo ottenuto quanto merita: la raccomandazione distribuisce illusioni ancor più che frustrazioni.
In linea tendenziale, chi coltiva- attivamente e passivamente- troppe raccomandazioni, e salta troppe file, non è una persona umanamente raccomandabile. E però si dovrà diffidare anche di chi non è mai stato raccomandato una volta nella vita. Infine, non desiderare quasi mai la raccomandazione è un eccellente segno di equilibrio interiore, specie se si abbina all’assenza di un sentimento d’invidia verso chi se ne avvantaggia (ma anche svantaggia, privandosi di ragioni d’orgoglio più profonde).
Un noto professore di diritto amministrativo del passato, indiscriminatamente generoso verso tutti gli studenti, a volte cominciava le lezioni pregando di non chiamarlo né farlo chiamare da conoscenti al mattino presto per essere raccomandati “perché al mattino studio, e poi cucino. Tanto l’esame è facile. Consideratevi tutti raccomandati”. E forse questo sarebbe l’ideale pacificatore: non la fine delle raccomandazioni ma la loro diffusione generalizzata. L’antropologa Dorothy Louise Zinn, che sulla raccomandazione ha scritto anni fa un saggio per Donzelli, ha scoperto con i suoi studi sul paese-campione lucano di Bernalda che nella scuola statale erano raccomandati il 95% degli studenti. E infine ha abbandonato i natii Stati Uniti per stabilirsi lì intorno.
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