Un regista fa i conti con se stesso mettendo in scena un personaggio che fa i conti con se stesso. In realtà nessuno dei due (il regista e il personaggio) questi conti li fa sino in fondo, nonostante ne venga fuori un ottimo film, “Il traditore” sulla figura di Tommaso Buscetta, lo storico primo pentito della mafia.
Ma vediamo prima la questione dei conti con se stessi. Marco Bellocchio, alla veneranda e per lui vitalissima età di ottant’anni, decide di fare un passo verso il grande pubblico (un secondo, dopo quello un po’ più facile e non tanto riuscito di Fai bei sogni). Prende un soggetto che lo tira per la manica verso il filone commercialmente consolidato del mafia-movie. Assume le movenze del genere? Non tanto, giusto in un paio di scene, poi rimane molto sobrio, misurato, lontano dalla facile eccitazione. Conserva le sue abituali prerogative di scrittura? Così così: centellina i rapimenti visionari (molto efficace quello di Andreotti beccato in un negozio di abbigliamento mentre gira in mutande e calzini) e sfuma la sua personalità onirica (che tanto ha entusiasmato la critica, qualche volta anche troppo). Da questa medietà- detto in senso neutrale- viene fuori un buon equilibrio, un serio e documentato lavoro impregnato di sottrazione visiva e testuale che bada a non perdere il filo della storia e della Storia, a costo di perdere qualcosa in tensione e calore.
“Il traditore” però (e veniamo al secondo punto) sceglie una strada mediana anche rispetto a Buscetta. Il film è visto per lo più dalla sua prospettiva ma il lavoro di scavo psicologico si arresta a uno strato piuttosto superficiale. E’ improbabile che Bellocchio non sia riuscito ad andare oltre, e sulla scelta si possono formulare ipotesi differenti: la convinzione che il personaggio stesso fosse poco introspettivo rispetto a sé, la discesa a cascata dell’impenetrabilità prodotta dal contesto mafioso, il desiderio di non contaminare in senso intimista una pellicola proiettata sull’impegno civile, un deontologico rifiuto di ingombrare nell’interpretazione. Ma il regista non può egualmente disfarsi del “vero” Buscetta- per quanti paletti egli stesso abbia voluto porre sull’affermazione di verità incontrovertibili- e rimane così succube dell’auto-rappresentazione pubblica che il boss fece di sé, di un sincero tradito invece che traditore, di un ribelle verso la Mafia che soprattutto con la droga aveva smesso di essere una comunità con delle regole identitarie. Per non contraddire quel cliché, Bellocchio sorvola sulle condanne che lo stesso pentito, in passato, aveva subito per il traffico di droga; e per non restare tuttavia risucchiato nell’immedesimazione acritica fa concludere il film con il flash-back di un delitto compiuto da Buscetta a molti anni di distanza da quando era stato commissionato (differimento dovuto peraltro a ragioni quasi nobili, che fanno apparire la vittima più schifosa del sicario). Forse molta era la preoccupazione del regista di opporsi al negazionismo sulla credibilità dei pentiti, che montò quando il livello delle accuse salì verso le coperture politiche: tema che peraltro affronta direttamente con le scene del processo Andreotti, in cui la strategia dell’avvocato Coppi si concentra solo sulla demolizione d’immagine del pentito- che pure nel frattempo aveva garantito mandati di cattura verso 366 mafiosi e obiettivamente assestato un colpo mortale alla cupola.
“Il traditore” offre una bella varietà di blocchi di scene. Le più claudicanti sono quelle del periodo trascorso in Brasile da Don Masino; le più affascinanti quelle processuali, e specialmente lo straordinario confronto tra Buscetta e Pippo Calò- e qui l’equilibrio fra realismo e teatralizzazione è veramente magistrale– e la vigoria di Totuccio Contorno, interpretato da un ottimo Luigi Lo Cascio. Le figure di Riina e del presidente della Corte sono troppo caricate e caricaturali; molto meglio Falcone, e perfetta la descrizione del rapporto umano che si instaurò tra lui e il boss, che ebbe il suo rilievo nella determinazione di Buscetta. Su tutto però si staglia la prova di Pier Francesco Favino, ormai un vero gigante, che restituisce tutta la parsimoniosa espressività mimica, corporea e vocale di Buscetta. E accantonando per un attimo l’arte, è anche una buona lezione storica, e di questi tempi proprio non guasta.
Il traditore
Marco Bellocchio
Votazione finale
I giudizi
Perfetto
Alla grande
Merita
Niente male
Né infamia né lode
Anche no
Da dimenticare
Terrificante
Si salvi chi può
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