Negli anni Trenta, in Romania, c’era un leghista che esibiva la croce, che dai suoi seguaci si faceva chiamare il Capitano e che era discretamente identificabile come fascista. E tutto questo, lo vedremo tra un attimo, non gli ha portato tanta fortuna. Ma abbandoniamo l’aneddotica, e veniamo per macrocategorie a parlare di storia che ritorna, o almeno di storia che rassomiglia (giacché la storia, uguale, non si ripete mai).
Il fascismo viene oggi ricordato quale fenomeno politico che ha riguardato l’Italia e, in una forma evolutasi partendo dall’imitazione italiana, la Germania. C’è sempre stata resistenza ad accorpare queste due esperienze, e ancor più a riconoscere una declinazione internazionale del fascismo. Due storici, il tedesco Bracher e l’italiano Renzo De Felice, hanno convogliato intorno a sé consenso nel rifiutare l’apparentamento. I due avevano ciascuno un obiettivo ben preciso. Bracher temeva che, collocandole in un contesto allargato, le responsabilità della Germania potessero finire annacquate; De Felice, all’inverso, voleva sfilare il fascismo dalla parentela ideologica col nazismo per ridurlo al rango di accidentale periodizzazione storica e nazionale (come aveva fatto Benedetto Croce).
In realtà il fascismo fu una sirena che ammaliò l’est Europa, dove una parte non indifferente della popolazione condivideva quelli che potremmo considerare tre pilastri ideologici dei fascismi: la ribellione rancorosa contro la democrazia liberale e i suoi strumenti, l’antisemitismo (sia pure in Italia tardivo) e l’antibolscevismo. In tutti i paesi in cui il fascismo in qualche modo attecchì esso progredì sotto la spinta dei ceti medi, schiacciati dalla crisi economica, e in tutti considerò l’esercizio della violenza una componente primaria della politica.
Ora, a dimostrazione del fatto che la storia qualche traccia difficile da cancellare la lascia, dobbiamo constatare che l’Ungheria, cioè il paese in questo momento a trazione antidemocratica per eccellenza, conobbe già un movimento fascista rilevante. Se esso non riuscì a conquistare il potere fu per la solidità del blocco conservatore del reggente Horty, e anche per la sua capacità- senza nemmeno doversi sforzare- di anticipare alcuni cavalli di battaglia della destra estrema. Uno fu l’antisemitismo, che generò in Ungheria la prima legge discriminatoria tre anni prima che, in Germania, Hitler fallisse il suo primo colpo di stato: nel 1920 venne introdotto il numero chiuso per limitare la presenza ebraica nell’ambito professionale e produttivo. Il regime ungherese era modellato su quello asburgico, e non era certo fascista. Eppure nel 1937 si avvicinò notevolmente alla Germania, e a capo del governo c’era Gombos, che aveva fondato un Partito della Razza, prima di scioglierlo ed essere assimilato da Horty. Nel 1939 il puro partito fascista della Croci Frecciate, guidato da Szelesi, raccolse il quaranta per cento dei voti a Budapest, e si impose come seconda forza nazionale. Nel 1944, ma praticamente giusto per il tempo di vedere arrivare l’Armata Rossa, Szelesi fu messo a capo del governo collaborazionista. Fu un fantoccio, perché tutto accadeva a guerra perduta, ma come abbiamo detto non era affatto pescato dal nulla.
Anche sulla Polonia, l’altra nazione europea al momento indiziata di antidemocrazia, ci sarebbe da ricordare quanto poco durò il suo esperimento democratico: dal 1921 al 1925, seguito da un colpo di stato che installava un regime simpatizzante del fascismo italiano (specie del corporativismo) e pronto a seguire e anticipare la Germania nella persecuzione degli ebrei, oltre che a trarre cinicamente – e miopemente – vantaggio dalle conquiste territoriali tedesche in Cecoslovacchia.
La Polonia era uno stato autoritario ma non aveva un partito propriamente fascista. La Romania invece sì, anche se era un fascismo sui generis, partito dall’estremismo religioso. Codreanu fondò un movimento politico misticheggiante, la Lega della Difesa Nazionale Cristiana, poi riconvertita in Lega dell’Arcangelo Michele e a metodi squisitamente terroristici, perfezionata nel partito della Guardia di Ferro, messa fuori legge ma presentatasi con un nome nuovo egualmente alle elezioni, che nel 1937 lo proclamarono secondo partito nazionale. L’ascesa di Codreanu fu fermata nel sangue dalla monarchia assoluta di re Carol, che lo fece uccidere dalla polizia, alimentandone il culto. I suoi successori provarono senza successo l’azione di forza per scalzare il monarca e vennero “riparati” dai tedeschi nei campi di concentramento, per poi riemergere a capo del governo collaborazionista, nel 1944.
Il passaggio nell’area di influenza sovietica sottrasse nuovamente questi paesi all’incontro con la democrazia, già per ciascuno rinviata dalla storia per ragioni diverse.
Dopo la caduta del muro l’Europa ha avuto troppo fretta di inglobarli al di fuori degli accordi commerciali e si è portata in casa un bubbone che sta rivelando tutto il suo potere infettivo. Lo sprone dell’ingresso nell’Unione doveva incentivare quei paesi a consolidare la democrazia. In mancanza di questo passaggio, quei paesi contribuiscono ora dell’interno allo sgretolamento dei principi liberaldemocratico. La Romania, che è di turno alla presidenza del Consiglio della UE, ha conservato un assetto istituzionale democratico ma ne espone malamente i peggiori risvolti di inefficienza e corruzione, facendone involontaria propaganda contraria.
L’area dell’Est Europa rappresenta oggi una sponda perfetta per il populismo di destra, che sembra contenere quella vocazione cosmopolita che il fascismo aveva balbettato.
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