Uno dei testi sacri cui gli ultraliberisti si ispirano per teorizzare la necessità della privatizzazioni è il breve e denso saggio del biologo Garrett Hardin, intitolato “La tragedia dei beni comuni”: in esso si considerava l’utilizzo comune e libero a tutti di beni esistenti in numero finito come prodromico alla loro distruzione.
Se il pascolo è aperto a chiunque, spiegava Hardin, colui che ci aggiunge una pecora riceve l’intero profitto della vendita e ci rimette solo una quota del danno provocato dal sovraccarico ovino, quindi tende allo sfruttamento intensivo della situazione.
Se quelli che lo citano lo avessero anche letto saprebbero che, quali soluzioni, Hardin metteva sullo stesso piano la proprietà privata e quella statale, a condizione che quest’ultima introducesse una regolamentazione sull’accesso (poi se la prendeva con la previdenza sociale e la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, ma questo è un altro discorso).
Tutto sommato, uno stato che facesse il suo mestiere di stato non scambierebbe la libertà di accesso con il suo abuso: per esempio, la bolletta dell’acqua potrebbe essere differenziata rendendola progressivamente costosissima quando si supera il consumo giustificato dalla necessità dei bisogni primari. La democrazia della giustizia, pur senza mettere in discussione l’economia di mercato per la maggior parte dei beni, potrebbe individuarne una categoria dallo statuto speciale (come l’acqua e la conoscenza in rete) da sottrarre al gioco economico della domanda e dell’offerta e da qualificare come “beni comuni”, da disciplinare, in forma il più possibile cooperativa, secondo l’unico principio del diffuso ed equo godimento sociale.
I beni comuni sono certo una categoria preziosa per un rovesciamento culturale rispetto all’appropriazione individualistica indiscriminata. Ma l’elaborazione intellettuale stenta a classificarne di nuovi, girando intorno agli elementi collaudati dell’acqua e dell’informazione. Quest’ultima rischia di essere una nozione generica, per difetto ma anche per eccesso. In nome della condivisione dell’informazione, resa possibile dalla potenza della tecnologia digitale, si vibrano fendenti mortali allo sfruttamento economico delle idee culturali, mettendo in serio pericolo il premio per la creatività in campo musicale o letterario e destinando all’estinzione i mestieri che animano l’intelligenza sociale, in questo modo minando alla radice la cultura stessa. Il concetto materialistico dei “beni” finisce per ostruire uno sviluppo comunitario alternativo: tracciando una netta linea di demarcazione tra i beni che possono essere spinti verso il comune (non necessariamente focalizzandosi su quelli che maggiormente favoriscono il benessere) e gli altri, la grande maggioranza, che sono destinati all’esclusivo godimento privato, si perpetua un’organizzazione che inclina all’ingiusto e all’ineguale. Meglio sarebbe, dunque, spostarsi dalla nozione di “beni comuni” verso quella di “bene comune” e allargare il significato della democrazia a regime che quel bene comune riassume e promuove, non solo nella forma della partecipazione politica, ma anche della condivisione di un’esistenza che non diverga nei suoi estremi al punto da creare tipologie di esseri umani inassimilabili tra di loro.
Il mezzo per raggiungere questo risultato è l’accesso, a condizione che non sia uno schema del tutto alternativo alla proprietà. Anzi la proprietà può rimanere l’elemento cardine del sistema, solo se favorisce l’accesso: accesso alla stessa categoria di beni oppure a una differente categoria di beni, valorizzata proprio dalla limitazione di quella specifica proprietà in nome dell’interesse sociale. Vale la pena di partire da un esempio storico: dal 1576 i nobili genovesi furono obbligati per decreto all’ospitalità di Stato. Le residenze più notevoli della città erano inserite in sorta di cataloghi, i Rolli, divisi per categorie di lusso e confort (al primo posto dimore adatte a cardinali, principi e viceré, poi feudatari e governatori, infine ambasciatori). Ad ogni visita di personalità straniera, a seconda del suo rango, veniva estratta una famiglia obbligata ad ospitarla nel migliore dei modi per conto della Repubblica . L’idea di base è che chi ha una proprietà di rilievo debba, per giustificarla, asservirla ad alcune circostanze sociali mettendola a disposizione in natura. Riportata alla realtà corrente non sarebbero troppo numerose (ma certamente esisterebbero) situazioni in cui, per continuare nell’esempio, imponenti proprietà immobiliari potrebbero, per una porzione di spazio e di tempo, ricevere una destinazione pubblica. Ma riguarderebbe invece un’infinità di casi la possibilità di sostituire la dazione in natura con una compensazione economica. Chi vuole la proprietà di una casa, dunque, dovrebbe aggiungere un surplus sul prezzo, in modo che la somma venga destinata a un fondo per garantire l’accesso all’abitazione alle classi meno abbienti così come chi vuole acquistare un autoveicolo dovrebbe pagare un’eccedenza per finanziare la gratuità dei mezzi pubblici, o la riduzione delle tariffe, per alcune categorie sociali. Una sorta di tassa di scopo, insomma, in funzione di una diretta correlazione tra proprietà e accesso. Si potrebbe obiettare che questo non è altro che il meccanismo ideologico che nella sua generalizzazione corrisponde all’imposizione fiscale; e si potrebbe ulteriormente eccepire che sono già abbondanti le tasse che gravano sulle persone dei beni che ne discenderebbe determinerebbe o inflazione o recessione, o tutte e due. In realtà una procedura di questo tipo consentirebbe di trasferire indirettamente potere di acquisto dai ceti più alti a quelli più bassi, che è (sarebbe) una basilare regola antirecessiva; e la gestione dei fondi provenienti dalla tassa di scopo sulla proprietà si risolverebbe in alcuni casi nella loro movimentazione da parte dello stato, che con quelle risorse dovrebbe acquistare case per i meno abbienti o fare in modo che le acquistino loro, o farne costruire per garantire loro l’accesso. Bisognerebbe fare in modo che la pressione fiscale rimanesse immutata, se non diminuita, anche prevedendo detrazioni per coloro che hanno alimentato fondi di scopo con i loro consumi volti all’acquisto di proprietà. Dalla proprietà in senso più stretto questa disciplina potrebbe estendersi alla proprietà in senso lato, e cioè all’acquisto di generi di consumo (anche il cibo) che da un certo livello di spesa vadano a sovvenzionare l’accesso a quegli stessi beni, come bene comune. Per evitare che l’insieme costituisca un disincentivo ai consumi bisognerebbe ritenere una proprietà in senso lato anche la disponibilità di denaro, introducendo sul risparmio una tassa di scopo che metta a disposizione denaro per chi, mancando di liquidità, non ha la possibilità di accedere a beni primari. Il principio: “In una comunità le cose possono essere tue solo nella misura in cui la tua proprietà contribuisce alla loro diffusione generalizzata” sarebbe una svolta sul piano della reciproca responsabilità sociale. Che ci sia un legame tra l’area su cui opera una tassa e quella su cui agisce la spesa che ne consegue è alla base della filosofia originale della Tobin Tax, ed è anche un buon modo per arginare il senso di estraneità (tutt’altro che ingiustificato) che il cittadino vive rispetto allo stato tassatore. Dal punto di vista tecnico i problemi di sicuro non sarebbero pochi. E’ chiaro che una cosa è prendere, per esempio, il gettito dell’Iva e farlo confluire indistintamente nel flusso delle entrate e un’altra è la creazione di una serie di contabilità separate che, a un certo punto, almeno sul piano del calcolo, devono raccordarsi con la contabilità generale, per evitare che la pressione fiscale complessiva arrivi a livelli insostenibili. Sarebbe necessario un sistema di circolazione dei dati notevole. Ma non credo che la sua realizzazione sarebbe poi tanto più stupefacente del modo in cui le aziende della new economy, o anche lo stato quando rintraccia gli elementi di spesa rilevanti ai fini del redditometro, già li raccolgono e utilizzano con spaventosa e invasiva precisione.
Questo brano è tratto parzialmente dal mio libro “Cosa resta della democrazia”
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