Ma chi glielo fa fare di inserire i contenuti a quelli che intervengono su Wikipedia? Rispetto al modello della reciprocità che domina il web, Wikipedia è invece un progetto autenticamente cooperativo, in cui il beneficio del ritorno individuale per colui che inserisce contenuti (esclusi naturalmente i casi di autopromozione) è del tutto astratto: è un po’ la posizione di chi dona il sangue, che certo non lo fa perché il sangue degli altri potrebbe servire a lui. Non ne viene gloria, visto che i contributi sono anonimi e l’incidenza della singola partecipazione sul buon risultato dell’impresa è per forza di cose ininfluente, composta com’è Wikipedia di 92 milioni di pagine: sotto questo profilo siamo su un piano analogo a quello dell’elettore, che potrebbe astenersi dal votare o quanto meno dall’informarsi, considerando quante poche possibilità ci siano che il suo voto da solo determini la vittoria del suo candidato (tale fenomeno di disinteresse viene in effetti chiamato “ignoranza razionale”). Siamo all’interno dell’economia del dono, che certo non ha inventato il web. Se ci sembra difficile, in questo momento, comparare qualcosa a Wikipedia è perché Wikipedia è più conosciuta: e lo è perché attiene alla conoscenza. Wikipedia attraverso qualsiasi voce racconta la sua impresa (non in senso di business) e non ha bisogno di parlare di sé e tanto meno di farne parlare espressamente gli altri. Se inseriamo su Google la voce Wikipedia solo Wikipedia ci dirà di cosa parla Wikipedia. Se l’abbiniamo a qualsiasi lemma, con lo scopo di una ricerca su Wikipedia (dono, solidarietà, modello, progetto ecc.) verrà fuori la moltiplicazione di quel lemma sulle voci di Wikipedia.
Wikipedia non si preoccupa dei free-rider, di quelli che lucrano sul lavoro degli altri senza mai inserire contenuti, anche quando ne sarebbero in grado, eppure accedono allo stesso modo: non s’invischia nell’ingiustizia delle singole omissioni, secondarie rispetto alla giustizia che esprime il continuo perfezionarsi di un’opera. In Wikipedia poteva accadere che per qualche giorno Topolino fosse presidente delle Hawaii e Bill Gates batterista dei Clash. Così Wikipedia, per difendere la reputazione e onorare la responsabilità sociale di cui si è trovata investita, ha messo redattori a scrivere, correggere, coordinare. Wikipedia non ha call center, nessuno attende o reclama, è uno sportello girevole.
Ma perché non potrebbero essere così le nostre città? Perché, invece di perseguire un’intelligenza collettiva, non mettere le nostre variegate intelligenze individuali al servizio dell’umiltà collettiva di una wiki-amministrazione? Non dedicare una piccola parte degli sforzi di ciascuno a renderla attraente e vivibile, a farne un orgoglioso progetto plurale?
So bene che esistono già associazioni senza scopo di lucro che tappano le falle dell’amministrazione o allargano la rete dei servizi disponibili sul territorio, i comitati di quartiere o la Croce Verde, o gente che va a stringere la mano di chi muore da solo o a mostrarla alle auto mentre i bambini dell’asilo partono per le prime crociere sulle strisce pedonali. Che wiki-progetti fuori web circolano silenziosamente e senza protagonismi da ben prima che si potesse wiki-imparentarli con Wikipedia. Ma non voglio riferirmi alla dismissione dei servizi pubblici, allo stato che dice fate da voi perché le casse sono vuote, e al volontariato che rimedia per come può. Mi piace immaginare una situazione di piena integrazione tra istituzione e società civile, segnata dal coordinamento della prima e dall’attivismo della seconda: un riconoscimento che l’ideale paradigma dei rapporti pubblici de-burocratizzati non è quello dell’azienda efficiente immaginata dal New Political Management ma quello dalla comunità solidale, organizzata e non separata “commercialmente” dagli uffici comunali. In definiva, una dichiarazione esplicita che lo stato (inclusi i suoi enti locali) non può sottrarsi al compito di curare ammalati, assistere anziani, educare e custodire bambini, rinverdire parchi, promuovere cultura, vigilare sulla sicurezza, sistemare strade, garantire trasporti, controllare e incentivare il buon incrociarsi dei traffici (di veicoli, di persone, di attività) sul territorio. Con il seguito, tuttavia, di un discorso così congegnato: questo è ciò a cui lo stato ha da provvedere, e non può esimersene. Questo è quanto verrà a costare. Se però proviamo a farlo collaborando tutti, a fine anno verificheremo che sicuramente è venuto meglio, e avremo anche risparmiato un sacco di denaro, che potremo restituire.
Perché mai, con il servizio pubblico dei cittadini, non si potrebbe tenere aperto un museo o una biblioteca di sera? O rendere disponibili luoghi privati per eventi? O rilasciare certificati? O piantare alberi nei giardini? O archiviare pratiche? Oppure organizzare spostamenti collettivi? O prestare libri? O ricevere e, in certi casi, gestire chiamate di soccorso? O riassestare una pavimentazione? O colorare un quartiere? O verificare la corretta diffusione di un bene comune?
I social network come Twitter e Facebook dovrebbero abbandonare il sogno adolescenziale di comandare campagne militari ed essere impiegati per quella effettiva capacità di coordinamento e comunicazione capillare e tempestiva che posseggono, che ne fa in potenza dei superbi agenti amministrativi.
Non è troppo comodo risolvere la partecipazione solo nella co-decisione? Sono la manutenzione e la materiale presa in carico del bene comune che ci formano la capacità intellettuale, e anche lo sfondo affettivo, per capire cosa sia utile per conservarlo e migliorarlo. Ed è l’assunzione di una responsabilità verso il resto della comunità che ci consegna l’autorità morale di contribuire a regolamentare la vita sociale.
Non voglio che si abbatta la salutare distinzione tra l’istituzione e la società civile, né che il formalismo necessario dell’una e l’informalità vitale dell’altra si annacquino reciprocamente. Mi pare tuttavia che la crisi della democrazia si annidi nella strozzatura che ha interrotto le loro relazioni, rendendole reciprocamente impermeabili e impenetrabili ma anche amorfizzandole al loro interno, e che solo rimettendole in contatto si possa attivare un circuito virtuoso che ne ripristini, per entrambe, la funzione e la qualità.
Trovo che il cittadino debba pensare con la sua testa quando decide (e quindi preferisco le delibere partecipative alla governance) e agire collettivamente quando amministra, e anche quando viene amministrato. In molti comuni, la sanzione per aver violato il regolamento sulla raccolta differenziata della spazzatura si applica all’intero condominio, non al singolo trasgressore. Probabilmente questo principio andrebbe allargato, inventando altre ipotesi in cui è una porzione della comunità responsabile nel suo insieme, e quindi esercita pressione e controllo sui singoli. Una situazione di questo tipo sarebbe però accettabile solo a fronte del parallelo potere di quella porzione di comunità di fungere da garante del suo membro nei confronti della pubblica amministrazione.
Non inciderebbe sulla fedeltà delle dichiarazioni dei redditi la possibilità di presentarla insieme a quella di altre persone che si fanno tutte reciprocamente garanti, e che perciò diventano collettivamente responsabili in caso di palese fraudolenza di qualcuno e però in partenza vengono “premiati” con una riduzione degli obblighi documentali, sgravando dunque gli organi di controllo? E non sarebbe un miglior punto di equilibrio accettare senza controllo preventivo le dichiarazioni unilaterali di inizio attività di un cittadino (in materia edilizia o commerciale) solo se “controfirmate” da altri cittadini, che si rendono parallelamente responsabili delle trasgressioni inerenti? E al tempo stesso immaginare un perpetuo scambio di informazioni tra comitati locali, composti di membri sorteggiati per una durata di tempo limitata, e la pubblica amministrazione nelle diverse aree d’azione? E ridurre la solitudine del cittadino di fronte all’impersonalità meccanica delle pubbliche amministrazioni che gli contestano qualcosa, affiancando all’ente competente giurie cittadine sorteggiate che possano valutare se nel caso specifico sussistano ragioni di equità per temperare il rigore di una procedura?
Si può avere la sensazione che una democrazia partecipativa autentica incontri la stessa obiezione che G.B.Shaw oppose al socialismo: “Occupa troppe serate”. Probabilmente la ragione che rischia di rendere virtuale la partecipazione decisionale del singolo (la sua poca incidenza rispetto al numero di cittadini) è la stessa che alleggerirebbe la partecipazione alla vita amministrativa della comunità. Quel che è certo, intanto, è che l’antagonismo tra i cittadini e la pubblica amministrazione non incide sulle serate, ma rende le giornate più faticose e l’inquietudine notturna difficile da sedare.
Questo brano è tratto dal mio libro “Cosa resta della democrazia”
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