Da tempo nelle carceri meridionali si studiava il modo per evitare che i boss mafiosi potessero continuare a impartire ordini dalla cella. Con la camorra si andò oltre: i camorristi non si limitavano a conservare il potere che avevano fuori ma lo ampliavano e si servivano della prigione come luogo di reclutamento, in un certo senso ritornando alle origini, visto che le prime tracce dell’associazione risalgono alle prigioni borboniche.
Artefice di questa strategia fu Raffaele Cutolo, emerso all’inizio degli anni settanta, nel napoletano, come colui che voleva rendere la criminalità campana autonoma da Cosa Nostra.Per questo si erano create due fazioni: a Cutolo si opponeva il clan dei Nuvoletta che con la mafia siciliana aveva legami di affiliazione. Arrestato nel 1974, a parte l’intervallo di qualche evasione, Cutolo ha vissuto ininterrottamente in carcere e ciò, singolarmente, non solo non ha nuociuto al suo carisma ma ha favorito la sua ascesa criminale. I detenuti, fino agli anni sessanta, avevano al massimo protestato per la zuppa; con il terrorismo avevano dato un respiro collettivo alle proprie rivendicazioni, ma la prospettiva, al di là dell’utopia rivoluzionaria, era pur sempre appiattita sul presente. Nella camorra, in meridione, il detenuto vede una soluzione ai suoi problemi personali e un’occupazione futura: l’ingresso in carcere non era semplice e generico apprendimento delle tecniche criminali ma vero collocamento. La camorra offriva ai reclusi e alle loro famiglie assistenza esterna. E intanto Cutolo mandava disposizioni all’esterno grazie al via-vai di custoditi rimessi in libertà o di semiliberi. Egli ebbe l’accortezza di non disperdere il patrimonio di antagonismo classista che il terrorismo aveva sollecitato nei detenuti: gli argomenti per galvanizzare gli affiliati erano l’idea di una redistribuzione di ricchezze a favore dei diseredati e una volontà predatoria, rapace e pulsionale, che nel suo autogiustificativo rifiuto dell’ordine esistente mostrava una certa parentela con gli slogan intonati dagli autonomi negli stessi anni. In effetti, la Nuova Camorra Organizzata di Cutolo divenne una sorta di sinistra estrema della criminalità dove la Nuova Famiglia, di Nuvoletta, Alfieri e Galasso, veniva inquadrata come l’ala conservatrice. Lo squallore dei nuovi istituti, che per ragioni di sicurezza esibivano lunghe e longitudinali distese di cemento o, se nuovi supercarceri, offrivano lo squallore di un ferroso blocco prefabbricato a cinque livelli piantato sull’asfalto, restituivano al sottoproletariato metropolitano la desolazione architettonica dei quartieri periferici, contribuendo, dal punto di vista psicologico, a negare ogni soluzione di continuità tra le zone degradate e il carcere, che appare delle prime l’ultima propaggine edilizia.
Ovviamente, se il capo della camorra sposta l’asse del suo potere in carcere, e all’interno del medesimo conduce la sua esistenza, la prigione non può rimanere soltanto luogo di transito in vista di futuri atti delinquenziali: le gerarchie, il carisma e la vis criminosa debbono trovarvi un’attestazione inconfutabile.
Tra il 1981 e il 1982 si consumano nei penitenziari una serie di delitti, alcuni dei quali raccapriccianti. Due detenuti vengono accoltellati, quindi uno viene infilato con la testa nel water e le gambe per aria e l’altro con il corpo decapitato situato in prossimità e la testa a poca distanza con un limone infilato in bocca. A Poggioreale un luogotenente di Cutolo, grazie all’ingestione di pepe e tabacco, simula un malore e una volta portato in infermeria sequestra medico e agenti, guadagna le chiavi della cella di un nemico, lo pugnala, lo decapita poi chiede al medico di indicargli dove sia il cuore, incide il petto e lo estrae. Al famoso boss Francis Turatello vengono tagliata la carotide e squarciato il ventre. I regolamenti di conti non sono solo individuali. Ogni tanto si scatenano sparatorie collettive e le armi si materializzano anche dopo le improduttive perquisizioni. A Cosenza (dove agisce prevalentemente la ‘ndrangheta) per due volte intere bande si fronteggiano a revolverate, lo stesso a Napoli, addirittura a distanza di due giorni. Poggioreale, che tra il 1982 e íl 1983 cambia cinque direttori in sei mesi, sembra totalmente in balia dei camorristi, che riescono a introdurre in piú di una circostanza anche dell’esplosivo e hanno un forte potere di intimidazione sugli agenti. A ottobre del 1982, dopo l’ennesima scena da western, 150 delle 600 guardie si dimettono dal servizio e gli altri si danno malati cosicché l’organico giornaliero non supera mai le cento persone: quei superstiti, giustamente, non hanno troppa voglia di essere commemorati come martiri e in una circostanza si ammutinano, rifiutandosi di intervenire, e lasciano che le fazioni se la risolvano tra loro. Il numero nazionale di morti ammazzati nel biennio ’81-82 è di 50 detenuti.
Tra criminalità organizzata e detenuti politici si forma, dopo un’iniziale diffidenza, un reciproco rispetto, che diventa poi leale collaborazione. Anche in questo caso il carcere è direttamente generatore del sodalizio. In un documento delle Brigate rosse si trovano alcune considerazioni sul ruolo delle organizzazioni malavitose che, dopo una pregevole analisi della base sottoproletaria delle stesse e un poco preveggente vaticinio di un loro scompaginamento a seguito della crisi del welfare e del conseguente declino della connivenza tra criminalità e potere politico nella gestione della spesa pubblica, sfocia nell’ingenua illusione di potere utilizzare la camorra, non solo in termini di transitoria alleanza strategica sul fronte dell’antistato, ma come primo gradino nella formazione di leve della classe rivoluzionaria. In realtà, l’abbraccio con la camorra si rivelò mortale, risultando all’inverso un veicolo di propagazione di infiltrati all’interno dei terroristi.
Verso la camorra in carcere, lo Stato manifestò un atteggiamento di tolleranza, forse perché assorbito dalla vigilanza sui terroristi, forse perché considerava la malavita un fattore di conservazione rispetto all’evoluzione della popolazione detenuta.
Nel supercarcere di Ascoli si svolse una vicenda illuminante per capire come lo Stato si fosse ritratto sino a consegnare alla camorra il governo delle prigioni, e non solo a Poggioreale.
Nel 1981 viene rapito dalle Brigate rosse l’assessore napoletano Ciro Cirillo. In antitesi con l’atteggiamento tenuto nel caso Moro, notabili democristiani decidono segretamente di trattare.
Esponenti dello scudo crociato e dei servizi segreti, accompagnati da alcuni luogotenenti camorristi, si recano a Ascoli a chiedere l’intercessione di Cutolo perché spenda í suoi buoni uffici per la liberazione dell’assessore. Tre detenuti politici che hanno buoni rapporti con le Brigate rosse sono trasferiti nel carcere marchigiano affinché possano discutere la questione con Cutolo. Ufficialmente la liberazione avviene in cambio di un miliardo e quattrocento milioni raccolti da imprenditori napoletani che da Cirillo, titolare dell’assessorato a cui competeva gestire la ricostruzione dopo il terremoto, avevano ricevuto delle commesse. Molti di questi imprenditori, dieci anni dopo, all’esplodere di Tangentopoli, rimarranno invischiati nelle inchieste per corruzione. In realtà Cutolo è determinante per la liberazione dell’ostaggio: quali promesse riceva dallo Stato non è dato conoscere, ma piú di qualche sospetto indica che anche lui acquisisca dei diritti nell’ambito degli appalti per la ricostruzione, oltre alla promessa di concessioni personali nelle sue vicende giudiziarie. Nello stesso giorno intanto uno dei tre messaggeri viene liberato dalla carcerazione preventiva per improvvisa mancanza di indizi. Il capo della squadra mobile Ammaturo, che indaga sui legami tra i terroristi e la camorra, e sul ruolo dei servizi segreti viene ucciso dalle Br nel 1982. Cutolo attende invano il pagamento delle cambiali e minaccia, in caso contrario, di vendicarsi. Secondo alcuni storici il notabilato democristiano, oramai invischiato nella collusione con la malavita, avrebbe contattato i rivali Alfieri e Galasso. Anche questo tradimento del potere politico è un ritorno alle origini: l’esercito garibaldino si era servito dei camorristi arruolandoli rapidamente come guardia nazionale e li aveva poi incarcerati appena assunto íl controllo del territorio. Quando cominciano a emergere í dettagli della vicenda, si scopre che dal registro degli ingressi erano stati cancellati dei nomi, quelli dei prestigiosi visitatori del boss. Salta il direttore del carcere, anche se, visti gli interessi in gioco, è da escludere che non fossero almeno informate altre piú alte figure istituzionali. Su intervento diretto del presidente delle Repubblica, Sandro Pertini, Cutolo viene trasferito all’Asinara da dove assiste impotente al tramonto della sua stella e alla trucidazione di tutto il suo clan.
Proprio al direttore dell’Asinara si celebra negli stessi giorni il processo per appropriazione di somme: evidentemente l’opera di correzione non deve riguardare solo i carcerati. Luigi Cardullo, soprannominato il Condor, aveva assunto il comando dell’istituto nel 1978 grazie alla sua fama di duro: ma le attrazioni paesaggistiche guadagnano rapidamente priorità nei suoi interessi. Nell’isola, teoricamente vietata ad estranei, organizza battute di pesca e cene con amici, sotto la guida della moglie anfitrione, che non disdegna di dire la sua anche quando si tratta di questioni penitenziarie, che sono poi ridotte all’osso visto che a disposizione dei detenuti ci sono solo due ore d’aria e il calcio-balilla. In contrasto con le sue giornate satrapesche, riserva agli agenti dormitori che, in relazioni ufficiali, verranno definite «ovili» o ex celle alle quali non sono stati neppure aggiunti gli infissi. Per una certa carenza di ospitalità 1’Enel aveva rifiutato di mandare i suoi dipendenti a effettuare riparazioni che li costringessero nell’isola per piú giorni: per i servizi igienici, ciò che gli veniva proposto era la rapida installazione di un water nella stanzette adibita ai pasti e alla cucina. Al corpo di polizia penitenziaria che reclama per l’infame trattamento presso il ministero, la Direzione replica che quegli ingrati a Natale hanno ricevuto anche un pacco-dono, del quale elenca la composizione: cioccolata, caffè, due spumanti, datteri, torrone, pandoro, mandorle e marron-glaces. Quando finalmente, nel 1980, da Roma si decidono a mandare degli ispettori, costoro trovano un quadro di incuria inverosimile e quattromila forme di formaggio abbandonate nel putrebondo caseificio, attorno alle quali si stringe un esercito di topi, festoso e brulicante. Ma si potrebbe rimuovere un funzionario per cosí poco? Il suggerimento dell’ispettore e di trasferire Cardullo a dirigere un altro penitenziario, e l’ipotesi che si vaglia è quella di Palermo. E ancora un’epoca in cui l’amministrazione penitenziaria tende a coprire le malefatte dei suoi dirigenti periferici e comunque non si sente mai di addebitargli piú che una mancanza di misura e bon ton. Dí una riunione ministeriale del 1981 sul caso si legge addirittura che «non si è ritenuto di stilare il prescritto verbale» . Sarà piú efficiente la Procura della Repubblica, che scoverà ammanchi amministrativi (gravi, certo, ma non quanto una conduzione tanto paranoica) per i quali Cardullo finirà a sua volta in manette.
Un libro in tre parti, diverse ma complementari. La prima, la pena pensata, risponde alla domanda “perché punire” e si confronta con le ipocrisie sottese all’attuale sistema. La pena applicata, traccia una minuziosa storia della prigione in Italia, con il supporto di materiali d’archivio, e oscilla spesso tra il drammatico e il grottesco. L’ultima parte, la pena vissuta, è una collezione di brevi monologhi, raccolti dall’autore sulla base di colloqui effettuati nei più importanti istituti di pena del paese: più che resoconto una narrazione, condotta sul filo di una tensione linguistica che mira a restituire nello stile la frammentazione e l’isolamento delle voci ascoltate.
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