Monologhi dal carcere
Stavolta aspetto pure io la fine del mese, come quelli che devono prendere lo stipendio, ma a me è meglio che lo stipendio,
andrò a lavorare in un’officina all’interno di una comunità di missionari, e finirla per sempre con questa vita cominciata 28 anni fa, la prima volta la galera fu una festa, nell’ambiente chi non era ancora stato dentro non era veramente collaudato, si poteva anche credere che alla prima occasione avrebbe fatto i nomi dei compagni, questa carcerazione è la piú importante, mi ha maturato, mi ha salvato, a volte penso forse è che sto diventando vecchio, oppure mi sto avvicinando alla religione, invece no, lo faccio per i miei ragazzi, per portarli in un’altra città e toglierli dalla strada brutta che hanno preso, cambieranno, certo che si può cambiare, e non è solo che dici ma no chi me lo fa fare, è proprio che in testa hai una testa diversa, io ieri sera guardavo in televisione «I miserabili», l’avevo già visto tanti anni fa, eppure mi sembrava la prima volta, probabilmente ci vedevo cose che prima non ci vedevo perché sono cambiato. Ho una figlia in carcere, i due figli maschi sono già entrati e usciti una volta, mia moglie ha avuto due botte al cuore, ho capito che la vita non è questa e mi sforzo tutti í giorni di spiegarlo a quelli che sono dentro affinché non ripetano gli stessi errori ma quelli tra loro dicono «Don Alfrè, chílle se fatt’viecchio, s’è ‘nsallanuto», a volte vedo due o tre telegiornali uno appresso all’altro, pure per discutere con gli altri, e poi si imparano un sacco di cose, sentivo parlare di voto palese, voto palese… a un certo punto ho preso il dizionario e ho capito che r’è stú voto palese, sono cose importanti, mettiamo il telegiornale dico, «Eh, don Alfrè, ma quanno mai, vui non capite niente», però alla fine li convinco e ci mettiamo a fare i commenti tra di noi, sono diventato cattolico, faccio degli interventi sul pulpito che nemmeno mi sognavo, si era fermato il tempo, e chissà quando si era fermato, forse quando mi presero papà e mamma, sono adottivo, avevo 4 anni, a 15 anni andai al Comune a fare la carta d’identità e me lo disse un impiegato del Comune, tornai a casa e la mamma ammise con fastidio: «Eh, te pijajeme in miezzo a’strada, eri fetiente, spuorco…», mia madre mi allontanava se la abbracciavo in mezzo alla strada, diceva che la gente chi sa che cosa poteva pensare, con mio padre era diverso, nel 1979 smisi di stare in mezzo alla strada perché mio padre mi disse che non mi sarebbe più venuto a trovare in carcere, nel 1984 è morto e ho ricominciato, ritrovavo quel senso di ribellione che avevo scoperto da piccolo quando pensavo che se mi picchiavano era perché non ero figlio loro. Lavoravo con 200.000 lire al mese, se andavo a rubare me ne facevo tre volte tanto in una sera, dissi nun me conviene e fatica’, i primi soldi li avevo rubati a mio padre, per fargli del male dopo che avevo saputo che non ero figlio suo, pure mia moglie è adottiva, e pure mia sorella, con í figli gli ho insegnato a lavorare, di mandarli a scuola, alla femmina l’ha rovinato il marito, ai maschi il paese, è un ambiente che non è buono Ponticelli, a pranzo veniva lo zio, che era sempre fatto di droga, mentre stava mangiando cascava con la testa nel piatto e io dicevo ai miei figli, «Oí, o’ verite cumm’è a’droga?», e il grande è stato qua in carcere che non me lo aspettavo, stetti molto male, era un anno fa, teneva diciannove anni e mezzo, noi quando saliamo dalla lavorazione passiamo per il corridoio dove c’è la stanza dei «nuovi aggiunti», ci do sempre un’occhiata, pure per curiosità, E pecché stai ‘ccà! mentre la guardia mi spingeva avanti a camminare, Per furto. Non ha dato la colpa a me ma mi sono sentito come se ce lo avessi messo io, ho cercato di avere notizie dai lavoranti del reparto dove lo avevano mandato, non potevo averle rapidamente dall’autorità per via ufficiale, ci sarebbero stati i tempi della procedura burocratica, poi andammo a fare il colloquio insieme, m’aspettavo che mi dicesse papà pensa per te, tu pure stai qua, invece si scusava, tu me l’avevi insegnato che non dovevo stare in strada, e io pensavo te l’ho insegnato però io sto ‘ccà, e allora ho cercato di fargli pesare questa galera, dicevo ai miei di non venire, non gli facevo avere soldi, non gli mandavo le sigarette, non so se ho fatto bene però non ci è ricaduto, il carcere deve essere un luogo di sofferenza perché solo cosí si può capire cosa significa perdere la libertà, uno non deve poter dire tanto qua non mi manca niente, la mentalità del carcere è cambiata, prima c’era più solidarietà, adesso se c’hai duecentomila lire in tasca vali duecentomila lire, se c’hai zero vali zero, e mio figlio diceva papà aggià fà stí ffigure, senza nà lira ind’à sacca, e l’altro figlio pure è venuto qua a Poggioreale, à capa a chillo non serve, è stato meglio in carcere, la mamma gli metteva i soldi fuori, non è che è il cocco della mamma, è che è instabile perché è diabetico da quando aveva dodici anni, ínsulinodipendente, di lui seppi che stava qua perché mi mandò un telegramma la madre, ma non è stato scioccante come per l’altro, me lo aspettavo, quando vidi l’altro gli dissi: io nun m’aspettavo a te, m’aspettavo a Gaetano, certo anche Gaetano posso immaginarmi che teneva in testa, a dodici anni dovere privarsi di tante cose, e poi sempre con l’insulina appresso, e poi le idee tipo papà ma io me pozz’sposà? pozz’avè figlie? e io, ma statte tranquillo, e ppuò avè. La notte che ho visto mio figlio non ho dormito, mia moglie dice è colpa tua, io dicevo sí, ma prenditi una piccola parte pure tu, tu hai lasciato le briglie, io da qua che potevo fare, ora è diventato un incubo quella stanza, guardo sempre e dico maronna mia nun me fa verè nú figlio cà dinto, teneva la maglietta a mezze maniche, jeans, capelli ben curati, pecché ò fatt e chesto chillo è fissato, ricordo il volto di mio figlio, quando mi vide si fece coraggio, certo è strano detto qua dentro, però cosí pensò, tengo a papà vicino, tengo una persona che mi vuole bene. Con mia moglie ho un rapporto conflittuale, lei non riesce a perdonare facilmente, però non possiamo ricostruire la famiglia sull’astio, è come costruire la casa sulla sabbia, in fondo sono 35 anni che stiamo assieme, partiamo e proviamo a ricostituire la famiglia, e lei dice intanto vai tu coi figli che io voglio stare un poco da sola, e io dico gesú ma tu sono già tanti anni che stai sola, e lei dice io sono onesta, si qualifica cosí, però io dico se te purtavo e sord’ a casa tu non chiedevi mai da dove venivano, ed erano tanti più di uno stipendio, nun hai chiesto stí sorde arò e pigli, dal primo giorno potevi dire guarda tu hai capito malamente, io nun magno a’ sti’ sorde accà, e allora vorrei che la trovasse una parola carina per me, una parola di fiducia, non possiamo ricominciare dicendo tenevi due posti di lavoro e li hai persi tutti e due, non si può rigirare il coltello nella ferita.
Un libro in tre parti, diverse ma complementari. La prima, la pena pensata, risponde alla domanda “perché punire” e si confronta con le ipocrisie sottese all’attuale sistema. La pena applicata, traccia una minuziosa storia della prigione in Italia, con il supporto di materiali d’archivio, e oscilla spesso tra il drammatico e il grottesco. L’ultima parte, la pena vissuta, è una collezione di brevi monologhi, raccolti dall’autore sulla base di colloqui effettuati nei più importanti istituti di pena del paese: più che resoconto una narrazione, condotta sul filo di una tensione linguistica che mira a restituire nello stile la frammentazione e l’isolamento delle voci ascoltate.
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