Monologhi dal carcere
La sofferenza in carcere, mah, forse è che se uno vede un film si emoziona, e se vede un cartone animato si commuove, che altro c’è, non ci sono carte, ping pong, svago, il massimo è il dadariello, che è la mollica di pane usata come un dado, perché i dadi veri non ci danno il permesso di tenerli, però c’è anche chi non lo tiene il dadariello, ogni giorno che passa è piú sofferenza e la cella è piú stretta, se vado in un altro carcere la sofferenza è finita, quattro ore di passeggio e la socialità, meglio pigliare la condanna e trasferirsi. Mia figlia ha tre anni, non la vedo da quando sono qui, non è che non vorrei però l’ho avuta da un’altra donna non da mia moglie, sto inguaiato con mia moglie per mezzo di questo fatto, lei poi è sensibile sull’argomento, piú di una volta ha abortito, vengono fuori gemelli ma dopo quattro cinque mesi non riesce a tenerli, se stavo fuori almeno la portavo dai dottori, mò va pure in menopausa, la figlia dell’altra la vedevo tutti i giorni, non mi può chiamare papà perché in casa sta il marito di lei e allora papà lo deve chiamare a lui, però a me mi chiama ammore, io sono di casa perché li conoscevo da tanto tempo a tutti e due, ma íl marito si è insospettito e ha fatto una scenata alla moglie e lei l’ha messo fuori casa, e lui ha detto ti prego fammi tornare non penso piú quello che ho detto, e lei l’ha fatto tornare, certo non è uomo, se mia moglie faceva cosí le tagliavo la capa, oggi uomini ce ne sono pochi, anche nella camorra, la camorra non è come una volta, una volta c’era l’orgoglio, l’omertà, adesso non ci sta piú niente, è uno schifo, io sto dentro per piccolezze, c’ero già stato per omicidio, in tutto dei miei quarant’anni dodici ne ho fatti dentro, ma ora è solo questione di una pistola che mi hanno trovato addosso, però si paga tutto, una volta la facevi franca perché noi eravamo uniti, e si vedeva quando si faceva assieme un lavoro, mica come adesso, che so, facciamo uno scippo, prendi trentamila lire, una volta quello che aveva preso la borsa diceva ecco le tue quindici, adesso magari ti dice che nella borsa non ci stava niente, neppure qua è un bell’ambiente, perciò sto sempre chiuso nella cella, mica voglio sentire le stronzate della gente, né mi va di raccontare i fatti miei, con quello che sta in cella con me sto benino, almeno mi aiuta a scrivere le lettere, io non so scrivere, scrive quello che dico io non è che si mette a fare di testa sua, gli faccio scrivere a mia moglie e qualche volta a quell’altra, e se non ci stanno argomenti lui tiene un libro di poesie, gli dico apri il libro e mettici una bella poesia, oppure scriviamo quattro pagine invece di sei, in quei momenti si sta meno male, perché si sta male col 416-bis e stanno meglio quelli del 41-bis, che so, gli danno pure le forbicine e le pinzette, certe cose si vengono a sapere, che schifo, qua esce un pentito ogni 15 giorni, in galera prima non ci stava nessuno, la giustizia ha vinto per mezzo dei pentiti, le cose che facciamo noi non è che siano giuste o ingiuste, se non le facciamo noi le fanno altri, il pizzo se non lo danno a noi lo danno allo Stato, e l’appalto lo sappiamo come funziona, insomma i soldi tanto vale darli a qualcuno che dà da mangiare alle famiglie, certo quando sparano non è bello, non è che è tutto bello. In cella mi faccio la controra perché tutta la nottata sto sveglio, mí vengono gli incubi, i dottori dicono che soffro di manie di persecuzione, incubi di tutte le maniere, piglio sonno e mi pare che sto cadendo, mi passa il sonno, comincio a pensare a dove sto, e la televisione è spenta e la notte non la puoi accendere, mi viene la mancanza d’aria, e l’altro dorme e io non ho mai pensato di svegliarlo, e che lo sveglio affare, ognuno guarda il suo, e sento i passi della guardia e penso che sta venendo da me, penso entrano le guardie e mi fanno qualcosa, quello va avanti e indietro e nella stanza sto in un metro, mi impressiono anche di giorno al passeggio, vedo due che parlano e penso quelli stanno parlando di me, tutto a posto? gli faccio, tutto a posto, tutto a posto, è arrivato o’pazzo, e si allontanano, e allora non scendo proprio piú, solo che stando solo in camera non mi distraggo e allora mi fisso con le malattie, mi brucia lo stomaco, prendo gocce e siringhe, era cosí già da bambino, a casa è tutto organizzato, però a casa se non si piglia sonno la notte uno si alza va alla finestra, si ricorica, si rialza, apre il frigorifero, appiccia la televisione, non dipende che c’ho gli scrupoli, neppure verso la mia famiglia, a me non piace rimpiangere, si lo so che papà magari era piú contento se facevo un’altra cosa, però c’ha altri figli, io lo rispetto, gli parlo col voi, però come fate a cambiare vita, a fare una vita diversa, uno se sta al Vomero o è fortunato o si buca, se nasce nel quartiere mio vive come vivono gli altri ragazzi, che fanno quello che fanno, a me non dispiace, mi basterebbe dormire la notte e che non mi bruciasse lo stomaco, e se proprio deve bruciare sapere che poi mi passa.
Un libro in tre parti, diverse ma complementari. La prima, la pena pensata, risponde alla domanda “perché punire” e si confronta con le ipocrisie sottese all’attuale sistema. La pena applicata, traccia una minuziosa storia della prigione in Italia, con il supporto di materiali d’archivio, e oscilla spesso tra il drammatico e il grottesco. L’ultima parte, la pena vissuta, è una collezione di brevi monologhi, raccolti dall’autore sulla base di colloqui effettuati nei più importanti istituti di pena del paese: più che resoconto una narrazione, condotta sul filo di una tensione linguistica che mira a restituire nello stile la frammentazione e l’isolamento delle voci ascoltate.
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