Monologhi dal carcere
Sei malato e ti accorgi di quanto sei impotente quando non sei padrone di andare in farmacia o ti misurano la febbre nel corridoio, la sieropositività l’ho scoperta addosso a San Vittore, era in atto un linciaggio sul sieropositivismo, una caccia alle streghe, li vedevi crepare in tv in modo orrendo, sentivi i commenti degli altri, se ne scopriamo uno lo buttiamo fuori, avevo vent’anni, lo scoprii facendo le analisi, entrai in una stanzetta, c’erano gli agenti al posto degli infermieri, mi chiamarono per cognome, sono arrivati gli esami, ce l’hai anche tu, una notizia devastante in modo violento, e a voce alta, che dalla stanza sfilava verso il corridoio, e uno si sarebbe dovuto preoccupare della vita che sfuggiva, e invece pensavi pure speriamo che fuori non abbia sentito nessuno, però ero calmo, forse cominciavo a cambiare rispetto a quando mi facevo i carceri per minorenni dove ogni tanto sfasciavo tutto, mi piaceva stupire, forse il fatto di non essere stato visto nell’infanzia, mai visto da mio padre che non ho conosciuto e neppure da mia madre che era sempre troppo ubriaca e che qualche volta mi mordeva in faccia, e noi disgraziati il carcere era l’unico posto che ci accoglieva, ci ritrovavamo, si affermava la propria forza, la predominanza sugli altri, e non ricordo solo il lato negativo, trovavo lí il padre o il fratello che mi ascoltavano, fuori ero un bambino di strada, mi riconoscevo in modelli negativi, la disperazione, la povertà, non c’era spazio per i sogni, il carcere era una palestra o un palcoscenico, io avrò interpretato cinque o sei personaggi, e ci si ammira ma anche ci si invidia, è un fatto strano, sto in cella da solo perché sono ergastolano e sieropositivo, mica perché ho prenotato la singola al mare, e sento gli occhi addosso di quelli che hanno da fare un paio d’anni e hanno la moglie che li aspetta fuori e se la vogliono hanno una vita, però mi invidiano la mia cella da solo, o il fatto che so scrivere, cosí la direzione mi chiama, alla cella da soli si può derogare, perché non ti scegli un compagno, e io penso almeno qualche compensazione la vorrei tipo non morire a fianco di uno che mi scorreggia nel sonno, ho anche l’epatite attiva, mi invidiano mica per nulla, ma non ci penso tanto alla morte, voglio vivere, certo penso che peccato, che peccato, questa frase mi fa venire in mente un dottore da cui andavamo noi tossici, andavamo a curarci e a fregargli i quadri, e lui una volta che arrivò mentre scappavo disse che peccato, io pensavo volesse esprimere il rimpianto per il quadro, che peccato un cosí bel quadro, dopo molti anni, lui era già morto, ho risentito in testa l’esatta intonazione della voce e ho capito che voleva dire un’altra cosa, che peccato riguardava noi, la nostra gioventú. Ho vinto il secondo premio a un concorso di poesia, dovevo andare in un’altra città a ritirarlo, il giudice di sorveglianza mi ha negato l’autorizzazione parlando di strumentalizzazione e io mi sono incazzato da morire, pensavo volesse dire che strumentalizzavo la poesia, volevo dirgli non ti permettere, il mio passato è merda, la poesia è il presente e l’unica cosa pulita che ho, poi ho capito che intendeva dire che gli organizzatori volevano strumentalizzare me e ho risposto: e allora? ben venga che mi strumentalizzino questi invece che la malavita, e in una poesia ho scritto gli uragani si placarono adagiandosi sul letto dell’oceano, gridarono le ombre sommerse col veliero da mille anni, e con la poesia riesco a far gridare le ombre, anche quella del ragazzo che ho ucciso, lo sogno spesso, un sogno ricorrente è lui su una lastra di marmo ma tutto intero, non come l’avevo visto io, lo avevo strangolato, poi bruciato, lo avevano ritrovato a pezzi, ed è molto tempo che non guardo le fotografie fatte dalla scientifica che conservo nel fascicolo. Ho avuto i primi due permessi, uno il giorno dei morti, proprio quello, è andata cosí, per caso, non l’avevo mica chiesto io il giorno dei morti, il fatto è che il volontario che mi doveva accompagnare era libero quel giorno, e io comunque non avevo chiesto quel giorno ma neppure un altro, quando faccio la domanda ho una sorta di pudore, lo considero un regalo, e nello spazio in cui si dovrebbero precisare il numero di giorni richiesti non segno niente, e i giorni in cui mi danno il permesso sono sempre casi strani, l’altro è partito il 23 dicembre, in quella stessa data mi avevano condannato all’ergastolo, e poi in qualsiasi data vai fuori ti rendi conto di essere vissuto in una dimensione irreale, in una bolla di sapone, mi sono fatto una chiacchierata col tassista mentre rientravo dopo Natale che era scaduto il permesso, e con i permessi quando torni, e anche quando esci, non stai piú né qua né là, specie se sai che con l’ergastolo addosso e pure la malattia veramente là non ci starai mai, per chi ha delle condanne brevi è diverso, c’era un ragazzino che andava sempre in permesso, andava e veniva, tanto gentile, ti serve qualcosa mi chiedeva ogni volta, nulla grazie, mi trasmetteva una speranza, nell’istituto di 23 eravamo 17 ergastolani, una mattina dice sto andando, e quando torni, non torno più, ho finito, ma come, sono rimasto lí in silenzio, è l’inversione della normalità, pensavo a forma di cella carceraria e mi sembrava logico che dopo una boccata d’aria tutti si dovesse ritornare, mi dicevo ha finito la sua pena, l’ergastolo a volte ti dimentichi cos’è, ma sí magari te ne fai solo 28 di anni con la buona condotta, scusa tanto, solo 28, e comunque con la mia malattia sono già troppi per pensare di non morire qui, come altri che ho visto uscire, avvolti dentro una coperta.
Un libro in tre parti, diverse ma complementari. La prima, la pena pensata, risponde alla domanda “perché punire” e si confronta con le ipocrisie sottese all’attuale sistema. La pena applicata, traccia una minuziosa storia della prigione in Italia, con il supporto di materiali d’archivio, e oscilla spesso tra il drammatico e il grottesco. L’ultima parte, la pena vissuta, è una collezione di brevi monologhi, raccolti dall’autore sulla base di colloqui effettuati nei più importanti istituti di pena del paese: più che resoconto una narrazione, condotta sul filo di una tensione linguistica che mira a restituire nello stile la frammentazione e l’isolamento delle voci ascoltate.
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