Monologhi dal carcere
Ho avuto in Venezuela abbastanza educazione per distinguere il bene dal male, mi sono fatto prendere dal bisogno, sono arrivato per la prima volta in Italia due anni fa come corriere della droga e sono finito subito in carcere, appena sceso dall’aereo che non conoscevo una parola d’italiano, adesso lo parlo bene perché ho avuto la fortuna di stare sempre in cella con italiani, salvo che all’inizio, il primo a insegnarmi qualcosa però è stato uno slavo che mi aveva avvicinato pensando che avessi della droga con me e cosí per averne si è mostrato gentile, il secondo che mi ha insegnato quando ho cambiato padiglione è stato un altro slavo che era il fratello di quell’altro ma lo odiava, e prima ero stato in isolamento 19 giorni, poi sono uscito e mi hanno dato una busta e un francobollo, ho scritto a mia moglie, la lettera è arrivata dopo 45 giorni, e intanto attorno parlavano questa lingua che non capivo, la guardia diceva devi andare alla doccia, e io lo guardavo inespressivo, e lui si arrabbiava e provava a dirlo piú forte, doccia, doccia, e subito comprendi che sarà dura da straniero se tí porteranno al padiglione degli stranieri, devi soffrire l’umiliazione, mendicare quello che agli altri va di darti, una o due sigarette, io per dignità i primi sei mesi sono stato senza fumare, altri raccolgono le cicche oppure chiedono i francobolli al prete con cui fanno colloquio, e se non hai una lira non puoi comprare spazzolino e dentifricio perché quelli l’amministrazione non li passa, ti danno la saponetta e pochi rotoli di carta igienica che devono durare tutto il mese per tutta la stanza. Sono arrivato qui e mia madre mi ha scritto una sola volta, per dirmi che a lei non piace scrivere, e mio fratello, anche lui, mi ha scritto una sola volta, dietro il foglio su cui aveva scritto mia madre, e l’unica che mi è stata vicina è stata mia moglie, è una ragazza di origini umili, troppo onesta, cosí i genitori la martellano, hai visto chi hai sposato? e io sono freddo, non mi lascio prendere dalle emozioni, osservo le cose con distacco e cosí mi accorgo che nel corso delle lettere c’è un allentamento, si sta perdendo qualcosa, sta per finire, e allora glielo ho scritto in italiano, lei mi ha scritto chiedendomi cosa volessero dire queste parole, era una predizione ma non te la traduco, se ci tieni fattela tradurre tu, e intanto lei mi ha scritto di nuovo, e ha detto io non ti ho voluto mai bene, cioè ti ho voluto bene alla mia maniera, poi dice non ho finito di leggere la lettera tua, l’ho bruciata, quando torni dobbiamo parlare, e io non ho finito di sperare, in fondo nella vita questo è l’unico errore che ho commesso, l’essere umano è cosí, l’unico male è piú pesante di tutto il bene che hai potuto fare, al mio paese dicono dell’albero che è caduto che forma legname, e per l’uomo tutto quello che ha fatto viene letto diversamente dopo il suo errore, eppure io non sono d’accordo di sfogarsi sull’albero che è caduto. Noi abbiamo una porta nella mente e la dobbiamo chiudere, se in carcere ti riempi di amarezza e di rabbia diventi pazzo, mia moglie scrive tuo fratello fa questo, e io le rispondo e che vuoi che faccia io, famiglia e sentimenti devono rimanere chiusi fuori, pensare a lavorare se si ha la fortuna di poterlo fare, se non si lavora non fumi la sigaretta, mangi peggio, qui mi sono messo subito sotto, ho iniziato come scopino, al mio paese sono laureato in agronomia, e intanto c’è gente che non lavorando passa tutto il giorno chiacchierando, mangia, si butta a letto e dorme, e non so se si possa chiamare sofferenza, portala in Africa o al mio paese, dove devi dormire con un occhio solo se no ti ammazzano nel sonno, qui la sofferenza vera è quando tu riesci a assimilare quello che ha perso la tua famiglia e i figli e ne provi dolore, se tu ti senti male solo perché hai perso la libertà quella non è sofferenza o meglio soffri come un uccello, e fra un mese, quando l’uccello ritorna a volare, ritorna qua se non ha pensato a quello che ha fatto, e uno o due giorni al mese mi sento male, mi alzo nervoso, non è che sto a pensare a qualcosa, è come una forma mestruale, no non penso, mia moglie mi racconta i problemi che hanno là e io dico raccontali a chi può risolverli, la sera guardo le foto delle mie bambine ma non faccio la nottata per questo, ho chiuso la porta della mente, se avessi pensato di trovarmi in questa situazione avrei creduto di morire, invece ho solo chiuso la porta, e in questi giorni ho letto Seneca, Seneca dice scusa, se tu guardi avanti e hai voglia di fare qualcosa dici lo faccio ma mai consideri la possibilità del disastro, quando arrivi a sbagliare senti tanto dolore, non lo capivi che quello poteva succedere, e allora dico io ti puoi pentire di quello che hai attorno ma è una stronzata, già l’hai fatto, quello non puoi rimediare, puoi cercare di rimediare il tuo futuro, il tuo oggi, il mio tempo non lo perdo per pentirmi, a mia moglie ho detto ti chiedo scusa una volta, è inutile che te lo scrivo ogni giorno, lo sappiamo tutti e due. Ho provato a capire cosa provano gli altri in carcere, allora ho chiesto a uno cosa ti fa soffrire a stare in carcere, gliel’ho chiesto due volte, la prima volta ha detto mi sento un uccello in gabbia, quindi la mancanza di libertà, lascio passare del tempo e lo guardo con più attenzione, è un ragazzo che fa il guappo per bisogno, ha uno zio boss e lui quello che ha fatto l’ha commesso piú per far vedere che è come suo zio che per se stesso, fa favori per far vedere che è uno che ha la possibilità, gli ho rifatto la domanda una seconda volta e ha risposto l’umiliazione, quale umiliazione, lasciarmi comandare la fatica da uno che fuori non è nessuno, la guardia, e aggiunge ci sono persone che io ci parlo perché è una convivenza forzata, ma fuori a me quelle persone non si possono permettere di parlare, è un bambino, si rovina la vita per seguire uno standard, ha una bella moglie, una bella figlia, ma non gli dà il valore sufficiente, io sono il nipote di quello è la sua ossessione, e per il resto ogni giorno si ritrova con un pensiero diverso, ed è uno, immagina se si dovesse trovare una risposta comune a piú persone alla domanda perché si soffre in carcere, se un computer dovesse trovare una costante dei pensieri piuttosto esplode, uno soffre per il figlio tossico ma lui vende la droga, uno soffre perché non può avere la tuta firmata, ogni testa un mondo, e uno mi ha detto che la galera è aiutata dalla fantasia ma io penso che ti fa diventare pazzo, non puoi allontanarti dalla realtà, la galera ti fa diventare nervoso, sei una stanza con otto persone. Quello che fa il guappo la moglie una volta gli ha scritto che il dottore aveva sconsigliato di portare la figlia di due anni in cella perché può essere traumatico, conclude scrivendo allora martedí non la porto, lui si arrabbia, ma che ha capito questa, è figlia mia, comando io, portami la bambina, dopo facciamo i conti, che ha capito il dottore, dovrei stare tanto tempo senza vedere mia figlia, ma la salute della bimba, me ne frego, è venuta la moglie con la bimba, eppure è una persona buona, è la famiglia d’origine che gli ha fatto male, lui pensa a quello che gli ha mancato di rispetto e quell’altro che gli ha portato rispetto, piglia tutto come un fatto personale, fa il guappo ogni giorno, martedí dice si può fare la pizzaiola, ieri dice no la pizzaiola no, un altro la voleva, dice se fai la pizzaiola non la mangio, e l’altro per paura dice se non la vuole meglio un’altra cosa, alla sera mangiamo pasta e piselli ma lui dice mettiamo i tubetti invece degli spaghetti, perché si devono spezzare, ma oramai sono spezzati gli spaghetti, si arrabbia un’altra volta, che cazzo ti credi dice all’altro, si mette a letto a sentire una cassetta. Nel carcere ci sono regole, la famiglia ti può portare 500.000 lire ma non sono tue, sono della cella, tu puoi fumare una stecca di sigarette ma in stanza si fuma tutti lo stesso, pure se si arriva a stanze di diciotto persone, quando arrivi nel padiglione senza una lira i soldi te li da la stanza, tu spendi quando arrivano í soldi, si stabilisce un tetto oltre il quale anche la paga del lavorante è comune, e nel padiglione normale si divide tutto, se invece è una stanza di stranieri è diverso, fra stranieri non si aiutano, io come straniero sono l’eccezione, la prima volta sono stato in cella con un italiano, non mi faceva mancare niente, era dentro da quattordici anni per omicidio di camorra ma era una bellezza di persona, con lui sono stato quattro mesi e poi non ho capito come mai non mi hanno portato in una cella con altri stranieri ma con tutti italiani, e per uno straniero è difficile inserirsi se, per esempio, non si fa il bidè o anche mangia con le mani nel piatto, ne parlai con degli africani, loro dicono che non è maleducazione, può darsi che abbiano ragione ma devi farlo a casa tua, e ho visto portare giú uno e picchiarlo perché tifa per l’Arsenal, oppure la guardia dire Mandingo, vuoi una scimmia? La sofferenza, fuori muore una persona e tu non ci sei, quello può far versare una lacrima ma non è tutti i giorni, e uno soffre perché voleva 150.000 lire e se ne trova 50.000 oppure la moglie non gli ha portato la tuta e non gli ha portato i soldi, portami un chilo di parmigiano, queste sono le preoccupazioni, la telefonata che non la trova, è la sofferenza rituale di ogni giorno, quello parla dei furti che ha fatto, quello dell’avvocato, tutti parlano dei processi, al passeggio sono tutti magistrati honoris causa, a passeggio non scendo mai, non mi piace raccontare í fatti miei e neppure stare a sentite tante stupidaggini, prendo piuttosto un buon libro o faccio disegni, io non credo all’amicizia tra detenuti, parlare tra noi è solo una forma di perdere tempo.
Un libro in tre parti, diverse ma complementari. La prima, la pena pensata, risponde alla domanda “perché punire” e si confronta con le ipocrisie sottese all’attuale sistema. La pena applicata, traccia una minuziosa storia della prigione in Italia, con il supporto di materiali d’archivio, e oscilla spesso tra il drammatico e il grottesco. L’ultima parte, la pena vissuta, è una collezione di brevi monologhi, raccolti dall’autore sulla base di colloqui effettuati nei più importanti istituti di pena del paese: più che resoconto una narrazione, condotta sul filo di una tensione linguistica che mira a restituire nello stile la frammentazione e l’isolamento delle voci ascoltate.
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