Monologhi dal carcere
Bianco ti penso, rosso ti amo, nero sono incazzato, sventolo il fazzoletto, spero che mi guardi, se mi guardi mi rispondi, sventoli, non ci siamo visti, ma questo è l’unico modo per avere contatti con le donne, è una fortuna che il femminile sia di fronte, in sezione mi dicono sei fissato, ma intanto c’è gente che si è sposata dopo il panneggio, si chiama panneggio
questo sventolare il panno, e funziona semplice semplice, se do un colpo di panno voglio dire a, e se ne do due significa b, e tre sta per c, e così avanti, facile no?, non è che si fanno grandi conversazioni, cominci con ciao come stai, e quella ti dice grazie bene come ti chiami, ora perdo meno tempo perché hanno mandato via una con cui ci panneggiavamo, sicuro che l’hanno mandata, perché non mi risponde, chissà com’era, di fronte vedi solo la mano che esce dalle sbarre, qualche volta provi a lanciare un grido, puoi dire poco, ti amo magari, gli edifici sono lontani, non è che ti puoi mettere a fare un discorso, e sbaglia chi sfotte, alcuni si sono picchiati, come, stai comunicando con la mia, è un mese che ti scambi messaggi e arriva uno e si mette a panneggiare lui. Serve a non perdere i contatti, va bene che per quello c’è anche la televisione, me la rigiro come mi pare perché sono da solo in cella, è una fortuna, a volte invece cammino avanti e indietro per ore, in mezzo ai poster con le donne nude che mi ha attaccato un compagno, mi metto le cuffiette e sento la musica, mi aiuta a non pensare, adesso il guaio è che si sono rotte le cuffiette, da sei mesi, però mi dimentico sempre di fare la domandina, a volte me le metto lo stesso e faccio finta che c’è la musica, preferisco piuttosto che stare in mezzo agli altri, c’era uno con cui andavo d’accordo, da qualche tempo lo hanno trasferito, un ergastolano come me, solo che lui è incazzato, dice sempre che questa è una condanna a morte eseguita tutte le mattine, io dico che bisogna rassegnarsi, ed è piú facile stando per conto proprio, anche perché mi viene da pensare che potrei essere un peso per gli altri, specie ora che mi sono accorto che è passato il tempo, già ventidue anni, quelli che avevo quando mi hanno messo dentro, ma cosa capisci quando sei giovane, adesso non sto troppo male, solo mi piacerebbe che qualcuno si occupasse di me, il mio sogno è questo, perciò è inutile che mi metto a fare socialità in mezzo agli altri, tanto qua non è che qualcuno si prende cura di un compagno, e poi mica puoi chiedere affetto a un altro, quello chissà cosa va a pensare, e io invece se penso al passato ho un ricordo fisso, quello di mia mamma che mi tirava su le coperte, adesso vengono a trovarmi lei e mio padre, è passato il tempo pure per loro, cosa ho fatto e se l’ho fatto non me lo hanno chiesto mai, tanto cosa interessa una volta che ti hanno visto che stai qua, e qualche volta sono venuti i miei fratelli, ma non tante, io preferisco parlarci al telefono, quando li incontro mi sembrano perfetti sconosciuti perché nella mia mente l’immagine è ancora di quando erano bambini, sono piú piccoli di me, per telefono è diverso, così non vedono neppure quanto sono invecchiato io. In altre città usano sistemi differenti, prendono una bottiglia e disegnano le lettere nell’aria, è la stessa cosa, basta che il reparto maschile e il femminile stanno di fronte, uno mi ha detto una volta ma non ti dà fastidio che gli altri leggono quello che vi scrivete, e io gli ho risposto comincia tu a dare íl buon esempio e a farti i fatti tuoi, e invece una con cui panneggiavo voleva cominciare a mandarmi le lettere vere, ma a me non andava, preferisco così perché se no poi devo risponderle e non mi sento sicuro, e quella magari chiede di parlare di me, io faccio tanto per non pensarci, non mi è mai piaciuto parlare di me, anche perché si finisce che uno deve dare giudizi su di sé, e io non sono bravo, forse sono troppo benevolo, ma la critica non è che sempre è una cosa buona. L’unica occasione per cui mi piace uscire e stare in mezzo agli altri è quando si gioca a pallone, perciò quando c’è il sole sono contento, significa che si gioca, noi poi quelle emozioni minime le abbiamo perse, mangiarsi un gelato o fare una passeggiata, restano poche cose, così quando segno un bel gol mi batte forte il cuore.
Un libro in tre parti, diverse ma complementari. La prima, la pena pensata, risponde alla domanda “perché punire” e si confronta con le ipocrisie sottese all’attuale sistema. La pena applicata, traccia una minuziosa storia della prigione in Italia, con il supporto di materiali d’archivio, e oscilla spesso tra il drammatico e il grottesco. L’ultima parte, la pena vissuta, è una collezione di brevi monologhi, raccolti dall’autore sulla base di colloqui effettuati nei più importanti istituti di pena del paese: più che resoconto una narrazione, condotta sul filo di una tensione linguistica che mira a restituire nello stile la frammentazione e l’isolamento delle voci ascoltate.
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