Ogni settimana le recensioni di Michele Raviolino sulle trattorie
Ci sono mattine in cui ti svegli e capisci subito che non è aria di agnolotti e vuoi andare in cerca di un posto veramente alternativo. L’appetitoso mondo delle tapas è scosso da un’eruzione di fantasia e chi trova la formula originale ha il successo assicurato. Il mio amico Calogero mi aveva spifferato di un locale che sotto questo profilo mette tutti in riga, e dell’indiscutibile singolarità del personaggio che lo governa: in terra veneta Padre Clemente era una celebrità tra i suoi parrocchiani, oltre che per la bonomia e la comprensione verso i peccati dei fedeli per la sua tendenza a ricadere in due di questi peccati, la bestemmia (prete sì, ma insomma anche veneto) e la gola. Entrambi gli hanno alienato la santità e le simpatie della curia,
che ha deciso infine di confinarlo in altra sede, nel paesino piemontese di Abbaziola. Il bravo curato non si è certo abbattuto e ha cercato di trasformare i difetti in virtù avviando, appena a pochi metri dalla chiesa, dentro una cappella sconsacrata, una lodevole iniziativa gastronomica. Da questa vicenda nasce “Ostia!”, la vivace taperia che in un ambiente reso grazioso da un arredo presepiale propone gli stuzzichini più ingegnosi del momento: le leccornie dei presidi Slow Food sono infatti proposte a un pubblico giovane ed entusiasta non con i consueti crostini ma con le ostie, ovviamente preparate con lievito madre. Appena metto piede nel locale, pronto a fare man bassa di gioielli come Ostia e burrata, Ostia e jambon serrano, Ostia e musetto, l’ostacolo corpulento del titolare mi indirizza verso l’inginocchiatoio destinato alle ordinazioni e mi impone di sottostare alla ritualità cui nessun religioso, sia pure di manica larga, è disposto a rinunciare. Recito la formula: “Confesso a Padre Clemente che ho molto mangiato…” cui segue l’indicazione dei pasti consumati negli ultimi tre giorni: da questi viene desunta la dieta opportuna per riequilibrare le tentazioni. L’esito non mi è favorevole e alla panca mi vengono servite Ostia e prezzemolo, Ostia e costine, Ostia e radicchio, Ostia e olio d’unzione. Ma pure Ostia e mostarda e un’Ostia e capasanta da urlo (l’urlo crea un piccolo fermento, scambiato per un pezzo di liturgia al quale tutti ritengono di fare eco). Il vino della casa non è malaccio, naturalmente servito al calice. Pagando qualcosina in più, i chierichetti ti allungano un paio di Ostie gourmet, quelle benedette, servite con il tartufo, ma soltanto in stagione. Sorpresa finale il Predicozzo, una specie di calzone fritto. L’altro vantaggio è che non si paga tutto in denaro: il conto è differenziato con una parte in contante (per via delle offerte, c’è scritto), una in bitcoin (per via di un richiamo simbolico all’assenza/presenza del corpo, mi dicono), e una in penitenze. Me la cavo con sette euro e quaranta centesimi, 0.0100 bitcoin (che scopro troppo tardi transustanziarsi in circa cinquanta euro), e sei Ave Maria. Se non era per il Predicozzo, a essere sinceri, uscivo affamato ma, perbacco, ecco un modo intensamente spirituale di avvicinare i giovani alla religione. Cosa dirti Padre Clemente? Non c’è certo bisogno che sia io a incensarti! (ah, ah! L’avete capita questa? ).
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