Antologia di Giudizio Universale, dalla “Guida per difendersi dal razzismo”
Alcuni anni fa un saggista e giornalista del quotidiano Le Monde, Paul Thibaud, scrisse che uno dei motivi del fallimento del referendum sulla Costituzione Europea era che il testo occultava due questioni: quella delle radici culturali dell’Europa e quella dell’immigrazione. In effetti, pensare l’immigrazione significa esplorare terreni culturali, sociali e politici; è significativa ad esempio la variabilità del significati e dei concetti che si associano al termine “immigrazione” e “immigrato”: si riferiscono di volta in volta al mercato del lavoro, all’appartenenza comunitaria o a quella etnico-culturale. Più recente è l’associazione tra immigrazione e clandestinità, che crea un clima di paura e di sospetto verso tutti gli immigrati. Si mette in moto così una dinamica giuridica che rende centrale la questione del controllo delle frontiere e del territorio, quella della gestione urbana, quella dell’integrazione; tutto ciò va a rafforzare il rapporto fra le problematiche legate alla sicurezza e governance politica.
Questo mutamento nel lessico e nella prassi è anche il prodotto di un fenomeno inedito nella storia: la mondializzazione dei movimenti migratori. L’esplosione delle domande di asilo a partire dall’inizio degli anni ’80, a seguito della destabilizzazione del terzo mondo, la chiusura delle frontiere europee ai nuovi migranti con la costruzione dello spazio Schengen, la caduta del Muro di Berlino e la crescita di movimenti estremisti a carattere religioso o etnico nel sud del mondo hanno reso l’immigrazione una questione centrale nel dibattito politico contemporaneo, in cui viene oggi trattata quasi solo in termini di sicurezza. Il fenomeno dell’immigrazione è divenuto quindi uno degli oggetti di studio più complessi dal punto di vista politico; ma sia il discorso politico che il trattamento mediatico tendono oggi a rappresentare l’immigrazione come un fenomeno subìto anziché voluto dalle società d’accoglienza.
L’immigrazione ci insegna che qualunque conoscenza è nello stesso tempo una costruzione: qual è il rapporto tra la storia, la realtà, il pensiero e la verità? Studiosi come Michel Foucault, Abdelmalek Sayad, Pierre Bourdieu, Michael Walzer hanno dimostrato che ogni epoca e ogni società produce un discorso dominante che ha la funzione di affermare la verità imponendo le sue categorie. E la ragione – ivi compresa la ragione scientifica – sembra ridursi a un mero dispositivo di normalizzazione utilizzato per legittimare il contesto storico del momento.
Così l’immagine degli immigrati è cambiata nel corso del tempo; e nei momenti di crisi è approdata alla massima fragilità e tensione. Come è stato dimostrato, l’immigrazione ci istruisce sulla nozione di colpevolezza: una colpevolezza in partenza individuale – perché ad esempio un immigrato ha commesso un delitto – può trasformarsi facilmente in una colpevolezza collettiva: un atto delittuoso può divenire, nell’opinione pubblica, il modello comportamentale per un intero gruppo. La cronaca nera degli ultimi anni è eloquente in proposito, con la messa all’indice di intere comunità: si tratta di ciò che la sociologia chiama etnicizzazione dei rapporti sociali.
Da questo punto di vista, il sapere sull’immigrazione ci insegna molto più sui soggetti che ne parlano, sulla società che se ne appropria, sui suoi fantasmi, le sue paure, la sua storia, la sua identità, di quanto ci insegni sugli stessi immigrati. La falsa simmetria fra integrazione, assimilazione e inclusione nasconde una molteplicità di pratiche normative e di comportamenti sociali. Dunque il discorso sull’immigrazione e i concetti utilizzati per descriverne il fenomeno o per modificarne la condizione non sono mai indipendenti. Di fatto, nel dibattito come nella ricerca sull’immigrazione, si instaura una relazione fra il ruolo dell’immigrazione nella gerarchia sociale e il suo statuto scientifico. Il ricercatore partecipa comunque a questo rapporto: lo stesso Abdelmalek Sayad amava ripetere che “la scienza sociale dell’immigrazione vale quanto valgono gli immigrati”.
L’immigrazione è una questione di rappresentazione, che spesso trasforma l’immigrato in una specie di icona immobile. Il suo studio dovrebbe porsi l’obiettivo di mettere in dubbio tutto ciò che un società sa, o ritiene di sapere. Pensare l’immigrazione, dunque, significa indirettamente pensare lo Stato, che a sua volta si autorappresenta in funzione di essa.
Fra gli strumenti all’origine di un discorso sull’immigrazione, la statistica, gli schemi e le curve demografiche possono dare corpo all’immagine dell’immigrazione, trasformando attraverso i dati numerici le paure irrazionali insite nel rapporto tra immigrati e società d’accoglienza. Ad esempio, alla metà degli anni ’70 il governo francese inventò la nozione di “soglia di tolleranza”: un eccessivo numero di immigrati rispetto alla popolazione autoctona avrebbe dovuto legittimare delle politiche di rimpatrio. Quelle politiche si tradussero in un fallimento totale: l’immigrato di lunga durata non torna quasi mai nel paese d’origine, semplicemente perché ormai non è più la stessa persona di quando era appena giunto nel paese d’accoglienza.
Nella moderna gestione delle politiche migratorie, il sistema delle quote ha un doppio volto: da una parte si relaziona al mercato del lavoro, dall’altra però cela in sé la drammatica questione del rapporto tra identità e territorio, nonché le annose problematiche dell’omogeneità delle popolazioni, e della denatalità nel contesto europeo. Ma esiste anche un discorso di tipo utilitaristico, quello del welfare state: alcuni studiosi affermano infatti che l’equilibrio pensionistico non potrà essere mantenuto se non con una politica aperta all’immigrazione.
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