Antologia
Non lasciatevi ingannare dall’apparenza cordiale e paffuta. Il tipetto ritratto nella foto è un alieno. Di più, è la sola specie di alieno certificata dalla scienza e dalla ragione, non una bubbola dunque, o una visione da matti creduloni che guardano le stelle per leggerci le proprie consolazioni.
I figli sono alieni nel senso tecnico (e invincibile) del termine: sono altri da noi, creature provenienti da quel profondo e sovrano artefice del reale che è la Natura, mai repliche o doppi della coppia di umani loro matrice, bensì modelli inediti (ognuno inedito, e se ci pensate è fantastico) del genere homo sapiens.Lo sanno bene, a milioni, i genitori che si ritrovano in casa qualcuno che prima non c’era, e nonostante l’amore e la dimestichezza, nonostante le (illusorie) presunzioni di potestà e di educazione, ben presto capiscono che il tipo da loro generato è un nuovo tipo, fatto a modo suo, diretto non si sa dove.
Esiste dunque una normale e spiegabile conflittualità tra genitori e figli, che solo l’amore (che è il nome nobile dell’istinto di conservazione della specie) riesce a rendere governabile. Bene lo sanno quelle madri e quei padri che almeno una volta, nelle notti insonni per allattamento o nelle notti insonni per discoteca, si chiedono chi accidenti glielo ha fatto fare. In assenza di amore (eccetera) nessun individuo accetterebbe con tale frequenza e facilità di diventare madre o padre, tante sono le seccature e le privazioni, le ansie e le delusioni, insomma i famosi “tanti sacrifici che ho fatto per te” che a un certo punto della vita, con ineluttabile banalità, ogni genitore decide di rinfacciare a ogni figliolo. Decisamente sensato, in questo quadro, pare dunque l’addebito che moralisti di ogni ordine e grado rivolgono agli adulti occidentali, e cioè di essere troppo pieni di sé, troppo egoriferiti per cedere una porzione di spazio vitale così enorme ai nuovi venuti. La sterilità figlia del benessere è del resto l’altra faccia di quell’assunto che parecchi di noi studiarono all’università, “il letto della fame è fecondo”, come dire che peggio si sta più si desidera dividerlo tra molti, e meglio si sta e più soli si vorrebbe stare, per godersi quello che resta (e non è pochissimo) del pianeta Terra.
Detto questo, sarà bene però non rinfacciare troppo ai viventi egoisti la paura della maternità-paternità, la dispersione del seme, il rallentamento vistoso dell’indice di natalità. E’ una specie di contrappasso rispetto alla fertilità bruta e incosciente degli evi precedenti, quando era poi la selezione naturale a dimezzare il numero dei nati, una specie di immane aborto sociale molto più feroce di quelli oggi conosciuti, con milioni di nati e cresciuti che venivano falciati da epidemie, fame, gracilità, e in fin dei conti nessuno si domandava (come si fa oggi per il feto) se i bambini avessero un’anima…
Voglio dire che è un giudizio troppo facile – nonostante le sue basi di verità – quello che disbriga la questione della sterilità occidentale come una pura questione di egoismo “sazio e disperato”. La ricerca di una “misura” nella procreazione ha anche basi di ragionevole preoccupazione, di socialità condivisa, e chi non crede che la Provvidenza provveda comunque, deve in qualche maniera sentirsi parte in causa, proprio per cercare di garantire all’alieno di copertina condizioni decenti di vita (non essendo la vita un “dono” a prescindere, come ben sanno i miliardi di bambini morti nei secoli dei secoli perché largamente “in esubero” rispetto alle possibilità del consesso umano). Misura significa che ovviamente non è logico né amabile non voler fare figli per non rinunciare alla settimana bianca o alla palestra, ma non è logico né amabile nemmeno rimpiangere una genitalità forsennata e sprovveduta, confidente in sostegni provvidenziali che molto raramente, e solo in occasioni specialissime, salvavano il pupo dalle acque, sorridente nella sua cesta di giunco, e molto più spesso lo lasciavano annegare.
Estratto dal nr. 29 di Giudizio Universale
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