Il linguaggio del diritto è troppo povero per difendere la donna. Una proposta.

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Ogni volta che si aggiorna il drammatico bollettino di violenza sulle donne viene in luce il filo rosso che collega una più generica condizione di sopraffazione e violenza di genere alla tragedia conclusiva: così anche per il caso di Noemi, del quale si apprende l’esistenza di un’escalation che aveva determinato anche una denuncia da parte dei genitori, finita poi nel nulla. Il modo in cui viene trattata la violenza sessuale è certo un tassello importante di questo mosaico. Sempre delle cronache attuali fa parte l’episodio di Firenze che ha coinvolto due carabinieri e delle turiste americane. Sui giornali sono inizialmente comparsi commenti assai sgradevoli sulle ragazze, per giunta nella totale ignoranza dello sviluppo dei fatti (tuttora accertati in modo parziale).

La condanna più decisa è provenuta proprio dall’Arma, che ha immediatamente colto come la divisa fosse stata disonorata già dal fatto che due agenti in servizio, distogliendosi dai loro compiti, avessero messo a frutto la propria posizione ed apparenza per avvicinare le ragazze.Ora la questione, dal punto di vista processuale, verterà sul consenso, se cioè questo ci fosse e in caso affermativo se dovesse intendersi viziato da uno stato mentale alterato dall’alcool o reso più precario dell’autorevolezza, se non autorità, della divisa (e certo si discuterà se lo stato di alterazione, volontariamente indotto, includa mettere in conto delle conseguenze di questo tipo).

Prima dell’estate mi aveva molto colpito un episodio totalmente differente: l’assoluzione di una persona che si era masturbata in autobus eiaculando poi sul pantalone di una donna, che non si era accorta di nulla fino al momento in cui ha percepito l’indumento bagnato. Il gip di Torino aveva escluso la violenza sessuale per l’assenza di contatto e sanzionato la condotta come atto osceno in luogo pubblico, normalmente concepita per un altro tipo di manifestazioni e in ogni caso non indirizzata a violare la libertà sessuale della vittima. Alcune critiche della sentenza si sono appuntate sulla circostanza che il liquido spermatico realizzasse invece il contatto che la violenza sessuale richiederebbe.

 

La riforma dei reati sessuali, nel 1996, venne giustamente salutata come un grande progresso sociale. La violenza si trasferiva dal campo della pubblica morale a quello dei  reati contro la persona. Nella nuova formula di violenza sessuale venivano accorpati i due vecchi delitti di congiunzione carnale violenta e atti di libidine, e questo metteva fine alla mortificante serie di accertamenti cui veniva sottoposta la vittima. Inoltre, per la sua formulazione, la violenza sessuale ampliava la fascia delle condotte criminose.

La scelta lessicale, tuttavia, non mancò di suscitare critiche: l’articolo 609 bis del codice penale sancisce che “chiunque con violenza o minacce o abuso di autorità costringe taluno a compiere atti sessuali è punito con la reclusione da cinque a sedici anni”. L’accento è posto sulla costrizione, e cioè sull’anomalia del comportamento, tralasciando ogni riferimento all’assenza di consenso della vittima. Inoltre, l’ultimo comma aggiunge che “nei casi di minore gravità la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi”. Si è insomma completamente delegato al giudice non solo di valutare il merito della gravità (se cioè i fatti siano andati in un modo piuttosto che in un altro) ma anche di completare la struttura giuridica del reato, stabilendo cosa sia grave e cosa no. Da qui una copiosa giurisprudenza, che ha dovuto decidere lo status di un palpeggiamento come di un bacio, di una pacca sul sedere come di un abbraccio, e dissertare sulle zone erogene.

Rispetto alla “costrizione” l’orientamento della giurisprudenza è stato quello di considerare l’assenza di consenso una componente della costrizione: il nucleo della rilevanza penale è diventato il dissenso. Il reato c’è se la donna ha manifestato dissenso, se ha detto no. Quel che le prospettive più femministe vorrebbero è che il consenso non debba essere valutato in negativo. Cioè, un rapporto sessuale, per non essere violento, non dovrebbe richiedere che la donna non abbia detto no, ma che abbia detto sì. Il dissenso spesso non è di facile dimostrazione, e diverse sentenze richiedono che sia inequivoco. Spostare l’accento sul consenso, tuttavia, non cambia troppo la situazione. La differenza tra consenso e assenza di dissenso, macroscopica nel campo del diritto civile o di quello amministrativo, sfuma in un campo come quello sessuale, per sua natura esente da eccessivi formalismi. Peraltro, se anche per assurdo, immaginassimo che per fare sesso serva un consenso scritto, non basta il consenso iniziale: necessita, ovviamente, che il consenso sia mantenuto durante il rapporto.

Inevitabilmente, che di dissenso o consenso si tratti, la pesantezza psicologica per la donna viene spostata dall’accertamento corporale (come era nella vecchia legge per stabilire se si trattava di congiunzione carnale o di libidine) all’accertamento psicologico: davvero non era d’accordo? Non è stata lei a provocarlo, lasciando intendere il consenso? Erano sufficientemente credibili i segni del mutamento di consenso durante il rapporto? Né d’altronde si può introdurre una presunzione di verità di ogni affermazione della vittima (la quale, oltre che mendace, potrebbe anche essere in buona fede ma minata dai suoi sensi di colpa) senza spostare l’ago della bilancia a danno dell’altra parte che, come per ogni delitto, non si può considerare colpevole sino a priva contraria.

 

Le sentenze cercano di ricavare un punto di equilibrio dal contesto, ma anche questa è un’operazione che oscilla tra gli opposti rischi dello stereotipo e della difficoltà probatoria nel concreto. Il caso più evidente sono le relazioni coniugali, specie se si fa mente all’interruzione del consenso durante il rapporto. Pare a me che il coniugio o escluda alla radice l’elemento soggettivo di quel reato o, nella consumazione di una violenza, indichi una situazione di gravità abnorme, non circoscrivibile esclusivamente alla sfera sessuale. Non meno insidiosi sono i casi di reiterazione: essi non saranno mai indice di una condotta delittuosa standard. O aumentano enormemente la gravità oppure, in alcune circostanze, si prospettano come un indice di mancato dissenso (o di consenso). Tra le poche conquiste alla certezza mi sembra il concetto che la trasformazione della tipologia di rapporto apra un capitolo nuovo dal punto di vista consensuale: una donna che era propensa a un rapporto con eiaculazione esterna dovrà considerarsi vittima di una violenza sessuale se l’uomo di sua iniziativa ha optato per un’eiaculazione interna (o, peggio ancora, se si è tolto il preservativo).

 

Tutte queste parole, dalle più innocenti (consenso) a quelle più pruriginose (penetrazione, eiaculazione, palpeggiamenti) affollano, come ho detto, le sentenze ma il legislatore vi si è tenuto pudicamente alla larga. Di più: il lessico della legge è rimasto assolutamente impenetrabile ai mutamenti sociali e culturali che lambiscono la sfera delle relazioni sessuali e anche a quelli che (pur collegati a profili sessuali) consacrano il riconoscimento della persona (della sua libertà, della sua dignità, della sua tranquillità). La legge italiana ha imboccato il percorso antitetico alla legge britannica (che pure di abitudine è assai laconica), che ha dedicato 44 minuziosi articoli ai reati sessuali. Ne deriva una scissione nociva tra il linguaggio e la cultura, da una parte, e il diritto, dall’altra. E non ne faccio una questione stilistica ma profondamente sostanziale. La scelta, forse un tempo ideologicamente doverosa, di affidarsi a un unico contenitore, “violenza sessuale”, immaginando che sarebbe stata poi la storia delle casistiche a individuarne il contenuto, alla resa dei conti, non mi pare vantaggiosa né per la punibilità di comportamenti odiosi (che però rientrano nella violenza sessuale solo assolutizzando il concetto) né per la diffusione di una maggiore consapevolezza dell’uomo sulla sfera di intangibilità di certe libertà femminili, che non meritano di essere ridotte all’indagine se la donna “ci stava oppure no” (o peggio “se ne provava piacere”).

 

Mi pare giunto il momento di spezzare la monoliticità del reato, scindendo da esso alcune condotte specifiche, qualificandole in modo esplicito come penalmente rilevanti, al tempo stesso proporzionandole nella pena (l’ampia misura della condanna è a volte un elemento di dissuasione per il giudice) e tarandole su forme severe ma alternative di sanzione che ben si presterebbero ad alcuni casi. Non è possibile che sia necessario discettare sulla capacità dello sperma di assurgere a “contatto” per giudicare se uno sconosciuto possa liberamente eiaculare addosso a una donna. Egualmente, se qualcuno è nell’esercizio di una funzione pubblica o di un mestiere in cui una cliente gli si affida fisicamente non può pensare di cominciare un rapporto in quel momento: il medico in ambulatorio o il carabiniere sulla volante dovranno mettere in conto di formulare (correttamente) della avance in altre sedi, e in altri momenti. In un passato non troppo lontano un giudice di merito aveva escluso il reato perché un palpeggiamento era stato effettuato non per pulsione libidica ma per umiliare la donna! E non è ancora peggio? Umiliazione di genere, palpeggiamenti senza consenso, violazione dell’intimità, abuso di funzione o mestiere per avvicinamento improprio: dovrebbero essere tutti reati specifici a se stanti, e non ci sarebbe da provare altro, se non il fatto nudo e crudo. L’interesse della donna, a me pare, non è quello di rubricare per forza le offese corporali che subisce nel contenitore penale della violenza sessuale, e temo che l’indeterminatezza della categoria non aiuti gli uomini a prendere coscienza degli abusi che compiono. L’obiettivo di ottenere il rispetto del suo essere (e anche del suo corpo) passa per il potere che il linguaggio (quanto più è chiaro, secco e analitico) ha di costruire i comportamenti sociali.

Di |2020-09-11T15:16:37+01:0015 Settembre 2017|Il futuro della democrazia|

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