L’odio verso la classe politica ha il suo complemento nel mito del buon cittadino, di volta in volta descritto sfruttato, disilluso, stanco, manipolato, tradito. Il trucco per glissare sulla sua totale inadeguatezza a districarsi nelle vicende della democrazia consiste nella raffigurazione rappresentativa: se quarantamila persone scendono in piazza se ne trarrà la prova che i cittadini hanno detto basta, sorvolando benevolmente sull’altra cinquantina di milioni.Oltre al populismo leaderistico esiste un meno machiavellico ma più pavido populismo intellettuale, che mai osa mettere in discussione la qualità dei cittadini, e il suo diretto effetto sull’andamento della democrazia.
Nel 2008 un sondaggio condotto in Italia tra gli elettori più giovani dimostrò che circa il quaranta per cento ignorava quasi del tutto l’identità dei politici. Soltanto una risibile minoranza cerca di andare oltre le suggestioni degli spot per informarsi confrontando le varie campane. Quando non dall’ignoranza il voto è spesso viziato dall’interesse: le maggiori percentuali di affluenza alle urne nel meridione sono ascrivibili al funzionamento del sistema clientelare. L’astensionismo cresce, e in Italia, dove ha raggiunto il settanta per cento, ci troviamo già in una situazione invidiabile rispetto agli Stati Uniti, dove supera la metà.
Schumpeter ha considerato le elezioni come un mercato dove, in senso sociologico, si commercia sul voto. Ma se il consumatore che acquista un bene, in linea di massima, è l’unico su cui ricadono gli effetti della scelta d’acquisto, l’elettore condiziona la vita anche dei suoi vicini: è come acquistare una multiproprietà di un edificio in costruzione su cui alla fine si deciderà a maggioranza se situarlo a Londra o nel deserto del Gobi. Stuart Mill era favorevole al suffragio universale ma pensava che i voti dovessero pesare diversamente in funzione dell’attitudine a comprendere le conseguenze della scelta. Onesto classista, egli aveva in mente gli operai ma se volessimo attualizzare il discorso e capirne la portata si dovrebbe probabilmente fare un salto in qualche villaggio turistico. Più in generale, l’esperienza ha dimostrato che vi è una bassa relazione tra l’acculturamento professionale e quello politico, e se esiste tende alla proporzione inversa dato che molti esimi professionisti e imprenditori sono troppo assorbiti dal mestiere e dal guadagno per occuparsi d’altro.
Qual è in democrazia esattamente il ruolo del cittadino? Secondo Schumpeter e Weber al cittadino compete votare e poi togliersi dalle scatole. Dall’amarezza per quest’emarginazione nasce l’opposta convinzione che sia questa distanza dal potere a diseducare il cittadino, e che egli possa far meglio se si elimina, con la rappresentanza, il pretesto per disinteressarsi degli affari pubblici.
Qualcuno tuttavia contesta che il cittadino appaia nelle democrazia solo al momento del voto: l’espressione della democrazia, scrive Nadia Urbinati, non è nella volontà bensì nel giudizio. La volontà si manifesta, insieme al giudizio, al momento del voto. Parte poi un circuito virtuoso nel quale il cittadino, anziché rintanarsi, giudica il comportamento di coloro che sono stati eletti, li sollecita e compulsa dentro l’opinione pubblica e può arrivare ad esercitare una pressione tale da poter costringere un governo alle dimissioni, e tornare in prima fila a votare.
Nelle divisioni istituzionali, insomma, ai cittadini non competerebbe il potere ma il giudizio sul potere, in ultima analisi il controllo. Il cittadino della modernità sarebbe il cittadino monitorante. Rosanvallon vede all’opera una vera e propria tipologia di controlli sulle istituzioni da parte della società, che chiama controdemocrazia. Più che un freddo legalista monitorante il cittadino è un turbolento e animoso casinista che, consapevole dell’inclinazione di qualsiasi potere a espandersi e manipolare, svolge la funzione di mettergli i bastoni tra le ruote, urlandogli contro nelle piazze, facendo pressioni sulla magistratura perché ne talloni l’operato, variamente sorvegliandolo. La democrazia rappresentativa, alla prova dei fatti, sarebbe il regime dove il popolo, più che giustificare il potere, lo rende scomodo da abitare.
Si può guardare con soddisfazione a questo ridimensionamento di ruolo del cittadino? Può esser sufficiente che, escluso dal tavolo degli sposi, trascorra la notte fuori dall’albergo dove quelli vorrebbero consumare la prima notte a fare chiasso con i barattoli, monitorare i gemiti dell’eros e pretendere al mattino la prova della verginità violata nell’esibizione delle lenzuola?
L’idea che il cittadino controlli potrebbe essere un buon accomodamento realistico se non avesse qualche rilevante controindicazione. La prima è quella di normalizzare lo stato di risentimento, farne la temperatura emotiva della democrazia. E’ vero che la magmatica conflittualità della società democratica coglie il vero più dell’ipocrisia che la vuole armonica e complementare: ma una cosa è immaginare che il conflitto perpetuo attraversi la società orizzontalmente e un’altra che l’attraversi verticalmente, teorizzare cioè che l’antagonismo insanabile non sia interno alle classi sociali ma tenga in continua tenzone i cittadini e i loro rappresentanti. Sembra un buon modo per deresponsabilizzare entrambi (anche il ceto politico, che ancor più si potrebbe calare nei panni del cattivo, e porsi di fronte al controllo con l’obiettivo di eluderlo) e di cancellare ogni ethos comune, sostituendolo con un quotidiano e diffidente dissapore. Nuovamente, si scambia la parte per il tutto: quanti sono a impegnarsi nella democrazia? Possiamo seriamente identificare nella fiacca opinione pubblica attuale la sfera del giudizio che fonda la legittimità del potere o l’invisibile Terza Camera con i suoi contro-rappresentanti? In passato due eminenti studiosi, Almond e Verba, sostennero che la tenuta di una democrazia si fonda su un giusto equilibrio tra persone attive ed apatiche, poiché l’eccessivo numero degli esuberanti può mettere in pericolo la pace sociale. Una parola di apprezzamento la meritano tutti. Anche a quello che non conosce l’ubicazione del seggio e si nutre di reality e talent potremo dare una pacca sulla spalla e dire: “Continua così. Stai facendo la tua parte nella democrazia”.
Per questi salvatori dell’onore del cittadino il motto è “l’importante è partecipare”, poiché pur di cancellare le tracce di depoliticizzazione della società civile sono disposti a tirare il collo al concetto di partecipazione. Non c’è dubbio che sia migliore una democrazia contraddistinta dalla partecipazione: ma non qualsiasi partecipazione. Quella che dobbiamo difendere è una partecipazione che sia informata e, in secondo luogo, effettiva. Quale sarebbe il valore etico che giustifica l’assoluta parità di potere decisionale tra chi partecipa in qualche forma alla vita civica, dedica del tempo a informarsi e acculturarsi e chi pensa solo ai fatti propri, salvo accendere la televisione la sera e cambiare canale quando comincia il notiziario? Tanto i politici, sono tutti uguali, dice spesso quest’ultimo. E se per te sono tutti uguali lascia che li scelga io! ben potrebbe rispondere il secondo.
Se un difetto ha avuto la descrizione della democrazia come un regime che distribuisce diritti è l’occultamento di tutto ciò che concerne il dovere. Nella Costituzione c’è stato il pallido tentativo di qualificare il voto come un “dovere civico” e prevedere l’annotamento di chi non vota, senza però che mai venisse applicata una sanzione. Ma non bisogna soffermarsi solo sulla giornata elettorale.
Il potere non si risolve nel rapporto tra chi comanda e chi obbedisce: il potere si esercita e si subisce ma anche si costituisce, si contesta, si controlla, si abbatte, si imita, si limita, si espande, si utilizza, si applica, si circoscrive, si protegge. La partecipazione vera è quella che assaggia tutte queste dimensioni e che si incunea nei loro interstizi. In mancanza bisogna rassegnarsi all’apatia della società civile.
Per abbandonare i pregiudizi in materia di democrazia, vale la pena di riflettere su una suggestione offerta dalla Rete, la democrazia liquida. Essa risolverebbe l’alternativa tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta: i cittadini, grazie a Internet, potrebbero tornare a occuparsi di politica deliberando, ma stabilendo insindacabilmente se farlo in proprio, come nella democrazia diretta, o per mezzo di qualcun altro, come nella democrazia rappresentativa. Il partecipante, infatti, può delegare una persona di sua fiducia, che a sua volta può delegarne un altro, Due persone potrebbero giovarsi delle reciproche competenze: uno diventerebbe il delegato dell’altro per la politica estera e sarebbe invece rappresentato nelle decisioni relative all’ecologia, per esempio. E la delega potrebbe essere revocata in qualsiasi momento. Non più stabili rappresentanti, dunque, ma decisori diretti e delegati precari che ricostituiscono l’agorà della volontà pubblica.
La democrazia liquida funziona benissimo nei piccoli gruppi. Può essere un fondamentale strumento di scambio tra un rappresentante politico e il suo elettorato, e anche renderli visibili l’uno all’altro, migliorando notevolmente la capacità di risposta del rappresentante e rendendo trasparente la sua responsabilità: potrebbe essere persino la chiave (parziale) per rivitalizzare la militanza partitica. Ma per quanti progressi possa fare il software anche in termini di sicurezza è difficile immaginare come un soggetto collettivo di questo tipo possa sostituire gli organi rappresentativi con un modello di coordinamento accettabile, sia interno alla decisione sia tra la decisione, la sua esecuzione e il suo controllo.
A parte le potenzialità applicative, però, il dibattito sulla democrazia liquida rimuove il tabù sulla democrazia delegata. Perché non dovrebbe essere possibile affidarsi a un’altra persona per il voto?
Usciamo un attimo dall’idealizzazione di un regime democratico e partiamo dall’esistente: il novanta per cento delle persone non è in grado di dire cose sensate sul nucleare, sui tagli di bilancio o sulla riforma elettorale. Ma rimedia all’incompetenza eleggendo un deputato: pensiamo sul serio che, mediamente, si procuri abbastanza elementi informativi per questa scelta? Più è larga la distanza tra l’elettore e la sfera di interessi che verrà regolata più il voto somiglia a una scommessa casuale. C’è però un tipo di decisione che qualsiasi persona (come per tutto, con un margine di errore) potrebbe prendere con buon senso: individuare chi, tra coloro che conosce e di cui si fida, avrebbe abbastanza cultura, informazione e capacità critica per decidere al posto suo il rappresentante politico di entrambi.
Mi rendo conto che alla prima lettura possa sembrare una dismissione della partecipazione, eppure è esattamente il contrario. In definitiva non si fa nulla di più che aggiungere un anello alla catena rappresentativa (oltre a comportarsi come si fa quando si tratta di prendere decisioni nel condominio). Il cittadino non è obbligato a delegare un altro, può semplicemente farlo. Il legame di prossimità rende più probabile che la fiducia sia ben riposta: è più facile avere le idee chiare su qualcuno che si vede tutti i giorni, o che si è avuto occasione di apprezzare in circostanze disinteressate, che non farsi un’idea chiara sul leader di partito che in tv truccato con il cerone recita il copione che gli ha messo giù lo spin doctor.
Le possibili obiezioni mi paiono tutte rintuzzabili. Come evitare che si scateni la caccia all’accumulo delle deleghe creando dei nuovi potenti nella società? Mettendo un limite al numero di deleghe che ogni persona può avere in mano, poniamo cinque. Come evitare che le deleghe le raccattino i politici di professione, e diventino solo un modo per prevenire scherzi nell’urna? Stabilendo dei vincoli oggettivi, per cui si può delegare solo una persona con certe caratteristiche (un collega di lavoro, un abitante nel condominio o nel quartiere), di modo che i delegati siano in buona parte disinteressati elettori (e tendenzialmente vietando che il delegato possa essere un parente stretto, per evitare che la molla invece che la fiducia sia la sudditanza o l’affettività). Come controllare la correttezza delle deleghe? Rendendole valide solo se anche il delegante, durante la giornata, si presenta al seggio elettorale dimostrando la propria identità. In questo modo si esclude anche che la delega si trasformi in un ulteriore allentamento della partecipazione e crei una categoria di cittadini che si tolgono il disturbo del voto per andare in spiaggia o restare a casa a vedersi il Gran Premio. La giornata elettorale deve essere un rito collettivo. Mi rendo conto che questa limitazione rischia di ridurre l’effetto (una persona che comunque va al seggio sarà meno motivata a delegare il voto) ma è giusto che chi delega sia consapevole e convinto sino in fondo. Che la sua sia, appunto, una scelta politica. Troverei anzi opportuna l’adozione del sistema australiano del voto obbligatorio (con tanto di sanzione per chi non va al seggio), salvo appunto la possibilità di delegarlo.
Quale il vantaggio di una democrazia delegata? Non solo quella di aumentare sulla percentuale totale dei votanti la quantità di cittadini mediamente motivati e informati ma anche quella di rendere noto ai candidati che avranno a che fare con degli elettori mediamente più motivati e informati, e inevitabilmente costringerli ad alzare il livello della discussione.
Ma, oltre le considerazioni pratiche, c’è una componente pedagogica e ideologica: la democrazia è un test anche per gli elettori, un compito delicato cui arrivare preparati. La scheda che consente di accedere al suffragio universale non è il biglietto d’ingresso per uno spettacolo. Non sarebbe inverosimile immaginare altre, pur limitate, forme di impegno politico obbligatorio, una sorta di “crediti formativi”, come quelli che vengono previsti per l’aggiornamento professionale e che aiuterebbero a fare del voto solo la fase più vistosa dentro una partecipazione più attiva e consapevole.
Il testo è tratto, quasi per intero, dal libro Che cosa resta della democrazia
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