A chi non piacerebbe alzarsi il 27 mattina di ogni mese, controllare l’home banking e verificare che lo Stato ha puntualmente versato uno stipendio senza che il beneficiario abbia fatto niente per meritarselo, salvo esistere? E, se questa erogazione riguardasse tutti, non sarebbe immaginabile che tutti fossero d’accordo nel renderla obbligatoria per legge? In realtà c’è un Paese, la Svizzera, in cui sono riusciti a raccogliere le firme per un referendum in tal senso, ma il 77% (sul 40% della popolazione che aveva partecipato) ha optato per il no, grazie. Che si tratti della Svizzera è indicativo del fatto che a rifiutare la misura sono in genere le persone abbienti, che ci vedono dietro una fregatura. Mi danno 2000 euro al mese da una parte e nello stesso tempo me ne tolgono 3000 per trovare la copertura. In Svizzera è andata male (anche perché il reddito ipotizzato era di 2300 euro, corrispondente a quello di un salariato, sia pure di basso profilo) ma in Europa se ne parla con sempre maggiore intensità, benché spesso a sproposito.
A sproposito perché c’è una certa confusione terminologica, in particolare tra l’ipotesi che ho appena indicato (che si chiama reddito di cittadinanza, ma anche reddito universale o reddito di base) e il reddito minimo garantito. Quest’ultimo consiste nel sostegno ai poveri, cui viene corrisposto un reddito a certe condizioni e per un periodo limitato. Farà più fico chiamarlo reddito di cittadinanza (così è nel disegno di legge) ma la nota proposta del Movimento 5 Stelle riguarda un reddito minimo garantito: si stabilisce come soglia di povertà la somma di 780 euro e si assicura il raggiungimento della somma a quelli che non la ricevono sul mercato del lavoro, si fanno i conti includendo i redditi familiari e si sospende la corresponsione se il beneficiario rifiuta tre offerte di lavoro consecutive. Sostituisce infine tutti gli altri sussidi pubblici, anche la pensione minima. E’ quindi una misura di razionalizzazione della spesa pubblica, ma nulla di radicale dal punto di vista politico. In tutti i paesi europei, tranne l’Italia e la Grecia, esiste il reddito minimo garantito, ovviamente con prerogative e misure differenziate (in Germania può arrivare fino a 1800 euro e copre in ogni caso il costo dell’alloggio).
Il reddito di base/di cittadinanza invece è incondizionato, universale, individuale, temporalmente illimitato: ovvero non ha importanza il fatto che si aggiunga ad altri redditi ed è dunque insensibile alla circostanza che il beneficiario lavori o aspiri a lavorare; spetta a qualsiasi soggetto (nella versione più estrema anche al neonato), pure John Elkann o uno che sceglie di passare la vita facendo surf a Malibu; non tiene conto dello status familiare; dura fino alla morte.
Il surfista di Malibu è una figura quasi mitologica nel dibattito sul reddito di base: la introdusse il filosofo John Rawls per esprimere la sua contrarietà alla proposta (perché dovremmo mantenere il surfista di Malibu?). Ma, paradossalmente, proprio il carattere incondizionato del reddito di base elimina l’obiezione storicamente opposta al reddito minimo garantito: chi glielo fa fare a uno che riceve un reddito minimo di 1000 euro di accettare un lavoro di 900, e magari anche di 1100 euro? (e le risposte pratiche a questo problema sono: “facciamo in modo che sia un reddito veramente da fame” rendendone parzialmente sostenibile l’esistenza oppure “facciamo che glielo togliamo se rifiuta un lavoro”, un discreto favore ai datori di lavoro che offrono impieghi precari e sottopagati). Il surfista di Malibu che rifiuta un lavoro da 1500 euro perde l’occasione di sommarli ai suoi 1000 euro di reddito di base e quindi forse gli conviene accettare il lavoro. O forse no, perchè è fissato per il surf ma per cena si accontenta di un uovo strapazzato e un’insalata (a un surfista poi giova mantenere la linea) e ha pure una tresca con un’affittacamere, quindi non gli serve arrotondare per sistemarsi la notte. Ma è poi davvero così grave mantenere il surfista di Malibu?
Accade in effetti una cosa strana. Il reddito di base in principio era sostenuto solo da una frangia politicamente radicale (solo sotto il profilo della analisi sociali) della sinistra, il movimento antiutilitarista, specialmente francese. Questi intellettuali sostenevano che la nostra vita è esageratamente occupata dal lavoro e auspicavano una settimana sempre più corta, cortissima. Confidavano che il nostro “fare” si protendesse oltre l’ufficio o la fabbrica. Per leggere, stare in comunione con la natura, dedicarsi alla famiglia. Certo, se proprio lo si preferiva, anche al surf. Gli antiutilitaristi sono stati i primi a criticare la riprovazione sociale che si abbatte su chi non lavora, o lavora poco, per sua scelta.
Ma ecco che oggi, tra i grandi patrocinatori del reddito di base, spuntano i super-capitalisti della Silicon Valley. Anche loro penseranno che non è necessario trascorrere l’esistenza gettandosi a capofitto nel lavoro? Mica tanto: è da quando la Silicon Valley è salita in cattedra che si lavora il triplo di prima e che è caduta la separazione tra casa e ufficio. La verità è che alla Silicon Valley hanno informazioni di prima mano sul fatto che tra poco, a ancora più che in passato e nel presente, la differenza non sarà tra scegliere di lavorare e optare per il tempo libero ma fra trovare un posto di lavoro sul mercato o non trovarlo. La robotizzazione manderà all’aria un’infinità di mestieri e, sorprendentemente, non solo quelli manuali ma pure quelli intellettuali. Così alla Silicon Valley hanno ragione di domandarsi due cose: 1) come reggerà il sistema alla forza d’urto di masse ridotte alla miseria più nera, composte per giunta da poveri di nuova estrazione, non soltanto dal consueto sottoproletariato? 2) chi comprerà i servizi tecnologici?
Alla Silicon Valley, insomma, il surfista di Malibu interessa. Meglio ancora il surfista di Malibu che controlla la app del meteo, utilizza qualche diavoleria tecnologica che inventeranno per monitorare le onde quando viaggia sul surf, condivide le immagini marittime con i colleghi surfisti e magari alla sera si rilassa con un videogioco sul surf che, secondo i più recenti orientamenti del comitato olimpico, diverrà magari sport olimpico, come dal 2020 il surf vero.
In qualche modo l’ideologia del reddito di base riprende il filo con le sue origini: Thomas Paine, nel ‘700, sostenne che sarebbe stato giusto remunerare tutti per compensarli della perdita delle terre a favore di pochi. Oggi si potrebbe dire che competa un indennizzo generalizzato per la perdita della possibilità di lavoro che l’organizzazione capitalistica sta determinando.
Messa così, però, viene il sospetto che la fregatura non sia per le persone abbienti ma proprio per quelle che il sistema ha collocato ai margini. Sorge il sospetto, cioè che il reddito di base sia un buon modo per puntellare il sistema e perpetuarne le diseguaglianze. Ci torneremo dopo.
Per intanto, si deve concludere che l’argomento del parassitismo sembra storicamente superato, anche per chi rimanesse persuaso che lo scopo della vita sia nel lavoro (non si associ cioè alla notevole controtendenza ideologica). Rimane il fantasma del surfista di Malibu a tirarci le lenzuola di notte e imporci la domanda: ma davvero questo reddito dovrebbe essere liberamente spendibile? Non corriamo il rischio che venga vanificato in scopi futili o peggio viziosi, tipo che a Malibu spacciano e il surfista si stanca dell’esercizio fisico e li spende tutti in canne più un bicchierino la sera?
C’è un dato che bisogna prendere in considerazione: gli esperimenti, sin qui, hanno dimostrato che dare soldi alle persone bisognose (che è il fine precipuo del reddito minimo garantito, ma viene inglobato per quella parte della popolazione anche nel reddito di base) è molto più redditizio che dargli cose o servizi. In Kenya, in Uganda, in alcuni stati americani la distribuzione non occasionale di soldi ai poveri non li ha spinti a comprare tabacco e alcool (come facevano a fronte di un reddito occasionale o di un’elemosina) bensì a programmare condizioni di vita migliori per loro ed i figli, tant’è che il tasso di frequenza scolastica è aumentato dell’80%. In più, se uno degli obiettivi è quello di consegnare alle persone le chiavi della propria esistenza, bisognerà pur far appello alla loro responsabilità.
Per altro verso, però, dato che il reddito proviene dallo Stato, nemmeno mi dispiace l’ipotesi che una parte di esso venga “costretto” a circolare in modo socialmente utile. Si potrebbe pensare a una quota di vaucher: ma è vero che questo provocherebbe un appesantimento dell’attività amministrativa, che è lo stesso limite del reddito minimo garantito (e non del reddito di cittadinanza che si risolva in pura e semplice erogazione di denaro). Mi pare quanto meno interessante, tuttavia, che il reddito di base possa essere impiegato a beneficio del territorio, e quindi in parte corrisposto mediante monete “locali”, cioè spendibili solo in servizi ivi localizzati.
A monte di tutto, però, resta inevitabile la domanda principale: stiamo parlando solo di una bella favola? Dove li tiriamo fuori i soldi per il reddito di cittadinanza? Uno studio degli economisti della Voce ha calcolato che per versare 500 euro a ciascun cittadino ci vorrebbero circa 300 milioni di euro, ossia il 20% del Pil. Non è un caso se il più frizzante assertore teorico del reddito di base, il filosofo Philip Van Parijs, indica come realistico il tetto di 300 euro pro capite. Che però è inferiore a qualsiasi proposta di reddito minimo garantito e sembra ridurre a simbolico l’impatto sociale del provvedimento.
Il problema della copertura è serio, anche se le cifre pessimistiche considerano solo un tassello del mosaico. Dalla copertura va dedotta la quota (tutt’altro che irrilevante) delle entrate fiscali che la circolazione di quel denaro genererebbe. Bisognerebbe mettere in conto i risparmi di spesa della tante prestazioni che verrebbero sostituite dal reddito. Infine, bisognerebbe rammentare che nessun economista serio considera più il Pil un indice adeguato di misurazione del benessere e che, a parte ciò, la quantità di denaro che lo stato spende per la sicurezza sociale o la sanità subirebbe una sensibile riduzione grazie al miglioramento delle condizioni di vita assicurato dal reddito di base. Sarebbe tuttavia stupido negare che il problema esiste. E semplicistico immaginare che il sostegno di questa misura provenga dall’aumento dalla tassazione (che trasformerebbe tutto in una partita di giro, gettando molte persone oggi autosufficienti nella dipendenza dal reddito di base).
Torniamo quindi al punto che avevo lasciato sospeso: il reddito di base ha senso solo come misura di rottura con l’attuale organizzazione di realizzazione dei profitti e redistribuzione dei redditi. Non credo che i grandi monopolisti del capitalismo tecnologico o finanziario che in poco meno di 300 possiedono metà del reddito e del patrimonio esistente sulla terra debbano limitarsi a versare un obolo per questo. Penso che debbano esserne quasi integralmente i finanziatori. Ma qui comincerebbe un discorso più lungo (che avremo occasione di riprendere).
La conclusione provvisoria che mi sentirei di trarre è che un programma politico decente dovrebbe ruotare intorno a questo interrogativo: come affrontare in modo radicalmente nuovo, e senza pregiudizi, il grave assetto economico di diseguaglianze, precarizzazione e pauperizzazione che sta strutturalmente investendo il nostro continente (e non solo quello: guardate quanto poco sono durate le performance dei Brics)? Il denaro, rispetto a “opportunità”, “lavoro per tutti” ecc. ha il merito, volgare ma per una volta utile, di essere aridamente quantificabile. Un programma politico dovrebbe spiegare in quale modo intende provvederne coloro che ne sono sforniti sino al punto di morirne e in che modo ritiene di recuperarlo dagli accumulatori che hanno ampiamente superato il grado di ricchezza in qualche modo utile alla società. Il problema del parassitismo, da un certo stadio in poi, concerne quei monopolisti, e non il surfista di Malibu.
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