Di fronte a un provvedimento politico presentato in modo stravagante, un buon esercizio costruttivo consiste nell’assumere un atteggiamento di questo tipo: “Va bene, queste sono un cumulo di sciocchezze. Ma c’è qualcosa di buono che può essere sviluppato partendo dai principi che ci sono dietro?”.
È il caso del reddito di cittadinanza: non interessa qui discuterne la validità intrinseca né la sostenibilità economica e neppure la sua reale natura (che non si tratti tecnicamente di un reddito di cittadinanza lo avevo già spiegato qui), e tanto meno si vuole sparare sulla croce rossa soffermandosi sulla sua attitudine ad “abrogare la povertà”.
Concentriamoci invece sulla volontà di escludere le “spese immorali”, di farlo spendere per beni essenziali e sul territorio, e di farlo spendere in ogni caso (non di accantonarlo per il risparmio). Mettiamo quindi da parte le uscite più surreali: è ovvio, fantasticare che la finanza abbia il tempo di controllare gli scontrini di Unieuro è come immaginare che la polizia abbia il tempo e l’intento di rastrellare i teppistelli che suonano i citofoni la notte e dopo scappano via; s’intende che se chi “imbroglia” (questo sì che è parlare da giuristi!) sul reddito di cittadinanza si fa “sei anni di galera” (beh, anche questo), cioè la stessa pena che sconta di solito un rapinatore, poi – tra una cosa e l’altra – andrebbe data una risistemata a tutto il codice penale. È difficile sottrarsi alla tentazione di fare dell’ironia sul concetto di “spesa immorale” (sul quale però alla fine di quest’articolo dirò qualcosa di meno tranchant) e soprattutto sulla capacità di categorizzarlo, che a giudicare dall’esempio di Unieuro non promette benissimo. È inevitabile constatare che questo linguaggio è indice di un’approssimazione culturale e progettuale mica da ridere. Eppure gli spunti sottostanti non sono così banali: in parte perché rivelano che quel che si proclama rivoluzionario non è altro che l’allargamento di corretti strumenti esistenti, in parte ed all’opposto, perché vengono messi in discussione schemi mentali che forse diamo per scontati con troppa facilità.
Il funzionamento del reddito di cittadinanza, riassumendo parrebbe così articolato:
- Lo spendi solo per i beni essenziali
- Lo spendi in aziende italiane
- Lo spendi e non te lo conservi
I beni essenziali. Anche qui partiamo dal lato meno convincente. Nello stesso momento in cui si celebra il popolo lo si sospetta incapace, dissoluto e irresponsabile. In realtà gli esperimenti di reddito minimo garantito non occasionale in Africa hanno dimostrato che le persone bisognose se ne servono per mandare i figli a scuola e riducono il consumo di alcool o di tabacco.
L’altra difficoltà è sindacare l’individualizzazione del bisogno. Il telefono portatile, che rappresenta di sicuro la voce di spesa più incongruamente sbilanciata nei bilanci personali, pure è a volte il presupposto per tenere contatti che fanno accedere ad altri beni. Se poi vogliamo planare su beni retoricamente condivisi e tuonare “pane per tutti!” pure ci dovremo aspettare la risposta del singolo che mette i puntini sulle i: “va bene, ma quale pane? Di segale, con lievito madre o farina doppio zero?” (e non è detto che sia per vizio, è che gli effetti sulla salute sono diversi. Anzi secondo i nutrizionisti la farina doppio zero è immorale, quasi quanto le spese cui allude Di Maio). Non parliamo dei servizi. Il trasporto pubblico, chi può negare che sia essenziale? Ma è solo uno strumento. Se lo adopero per andare a fumare al parco, invece che per andare al lavoro o ad assistere i genitori, tanti saluti all’essenzialità.
Detto questo, che lo stato decida di erogare o finanziare solo alcuni beni e servizi ritenendoli essenziali non è certo una novità. È quanto già accade con la social card, esistente dal 2009, ma è anche la struttura di funzionamento del ticket farmaceutico. È persino alla base dei meccanismi di deduzione fiscale: il costo che restringe l’imponibile fiscale è parzialmente sostenuto dallo stato (mediante la parallela riduzione d’imposta), che quindi riconosce alla spesa un valore personale (simile all’essenzialità) differente da quello della spesa non deducibile. Insomma, niente di nuovo sotto il sole. Qualcosa di interessante può tuttavia emergere dalla identificazione finale di beni essenziali dentro questo provvedimento (ammesso che mai ci si arrivi). Se in concreto, un giorno potremmo dire “lo stato ha deciso che tutti i cittadini abbiano diritto a comprare i libri scolastici per i figli” potremo anche ricavarne che i beni essenziali, riconosciuti e sovvenzionati, si sono estesi in un modo che migliora l’eguaglianza e la qualità della democrazia.
Lo spendi in aziende italiane. Il famoso moltiplicatore keynesiano mostra come l’immissione di denaro generi potenzialmente un effetto a catena: se quelli che producono scarpe ricevono 100 euro e li spendono per comprare abiti e questi ultimi per fare la spesa alimentare, e così via, il reddito gira, e produce persino imposte per lo stato. Geniale, elementare sul piano teorico ma ovviamente assai più spinoso nella pratica in quanto sottoposto a multipli fattori, uno dei quali è la dispersione dei redditi in questione. Perché si registri effettivamente un beneficio sull’economia è plausibile che lo stato si impegni per impedire la dispersione. Più rilevante della italianità dell’azienda (che sarebbe anche incompatibile con i limiti alla concorrenza nei confini comunitari) mi sembra la permanenza nel territorio: in altra occasione avevo ipotizzato una sorta di voucher locali. Se il reddito, al contrario, non viene erogato mediante moneta, si trovano tagliate fuori realtà come i mercatini locali, che del territorio possono costituire il cuore pulsante. Rimane sempre la possibilità di generalizzare l’eliminazione del contante ma, a prescindere dal fatto che la Lega pensava alla soluzione inversa di eliminare la tracciabilità, è evidente che questi cambiamenti esigono una ristrutturazione amministrativa pianificata con competenza.
Lo spendi e non te lo conservi. Se lo sottraiamo all’area morale (alla quale, peraltro, il risparmio viene di solito più apparentato del consumo), l’obbligo di consumo esprime una scelta di politica economica del governo. Tornando al moltiplicatore, uno dei fattori chiave è la quantità di risparmio: se il denaro immesso nell’economia non viene speso a sufficienza l’incremento della moneta circolante non sortisce gli effetti sperati. Il consumo “forzoso”, se proprio deve essere incluso in una branca etica, invoca un patto di solidarietà. Il beneficio erogato con le casse dello stato torma in parte anche a favore di chi lo ha sovvenzionato con la sua contribuzione fiscale.
Ultima nota sulla immoralità. Il più recente antefatto in materia di controllo morale dei consumi privati sono stati i provvedimenti del sindaco di New York, Bloomberg (tra il 2010 e il 2012), essenzialmente volti a combattere le cattive abitudini alimentari: dapprima provò a vietare l’acquisto di bevande gassate con i buoni pasto pubblici; seguì il divieto di vendere confezioni macro di bevande gassate. Quest’ultima delibera fu criticata, sulla scorta dell’obiezione che il sindaco non è una “tata”, e cassata dalla giurisprudenza in nome della libertà personale. In realtà, non era mica vietato di comprarsi sedici lattine di bevande gassate. Era soltanto meno conveniente. Si rientrava cioè in quella nozione di “spinta gentile” (ne ho scritto qui) che è un metodo molto evoluto e trasparente di condizionamento sociale a fin di bene. Qui ripartiremmo da capo: lo stato deve agire neutralmente o scegliere un concetto di bene? E la domanda è ingenua: lo stato non è mai neutrale, e quando mostra di esserlo sta in realtà favorendo un equilibrio che si è formato all’interno di rapporti sbilanciati di forza, come è stato per l’abdicazione al liberismo selvaggio. Certo, alcune concezioni del bene sono più opinabili, preoccupanti e invasive di altre. Anche alcune che vanno piuttosto di moda. Però questo è un altro discorso.
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