Nel referendum del 4 dicembre c’era una convinzione che accomunava tutti i suoi animatori politici: il Senato italiano, così com’è, non va bene. La divisione stava invece nel fatto che, secondo alcuni, la legge scelta per modificarlo era insoddisfacente; secondo altri era meglio che niente, e bisognava già essere felici che dopo decenni di sterile discussione qualcuno ci avesse messo mano.
Nel fronte del no si è ricorso molto all’argomento della partecipazione dei cittadini. È vero che la nuova legge non si muoveva in quella direzione,
ma è anche vero che i modi di rianimare quella partecipazione, la grande assente nella democrazia rappresentativa, sono stati sin qui espressi con molta timidezza. La proposta di ricorrere al sorteggio, al primo impatto può apparire assurda. Eppure comincia a circolare seriamente nella scienza politica.
La peculiarità della democrazia greca, ancor più della partecipazione di tutti (almeno di quelli che erano considerati “tutti”) alle decisioni, era l’uso del sorteggio. Era questo il metodo per entrare a far parte di vari organi di controllo, che indirettamente finivano per essere decisori quanto l’assemblea. Aristotele non dubitava che la democrazia si caratterizzasse per il sorteggio e non ne dubitava nemmeno Montesqieu, il che dimostra che si trattava di una convinzione ancora diffusa nel Settecento, Del resto ne avevano dato ottimi esempi le Repubbliche italiane del Rinascimento e l’ipotesi delle nomine per sorteggio si affacciò anche nella Rivoluzione francese, quando venne infine soppiantata dal criterio dell’elezione e iniziò la sua china discendente. Tanto da scomparire del tutto, pure dai dibattiti, sino a una ventina di anni fa.
Perché l’elezione invece del sorteggio? Si potrebbe considerare un lascito dell’aristocrazia alla democrazia: Madison, del resto, teorizzò che le elezioni fondassero un “corpo scelto” e saggio di cittadini e fondò su questo la superiorità della democrazia rappresentativa su quella diretta. Un criterio meritocratico ben accolto in seguito dalla propensione oligarchica del liberalismo economico e dal managerialismo aziendale ma, che alla lunga, avrebbe messo in discussione anche la scelta del metodo elettorale. E in effetti se il popolo non è abbastanza assennato per decidere di suo, perché poi dovrebbe essere lungimirante nella scelta dei rappresentanti? Se “corpo scelto” deve essere lo si selezioni sulla base dei meriti raccolti sul campo invece che sulla capacità di abbindolare gli elettori. Sono argomenti che aprono sempre di più la strada alla tecnocrazia e ai governi tecnici, specie quando si insiste sulla morte delle ideologie e si invita la democrazia a rappresentare interessi secondo una gestione razionale.
Nel frattempo il sorteggio si è ritagliato una sua nicchia nelle procedure giudiziarie, anche in Italia nei processi dinanzi alle Corti d’Assise. Visto che si discute di un affare per nulla secondario qual è un delitto di sangue, che senso ha l’estrazione a sorte se il rischio è quello dell’incompetenza? Non avrebbero diritto anche gli accusati di un crimine a un “corpo scelto” per giudicarli? Hegel disse la sua rispetto a questo tipo di giurie: l’uomo comune, grazie al buon senso, è del tutto adatto a giudicare il “particolare”. Egli è dunque un ottimo complemento per il giurista che è l’unico a doversi occupare del “generale”, costituito dall’applicazione della norma di legge.
Come volessero dar retta a Hegel, recenti iniziative politiche che stanno rivalutando il ruolo del sorteggio lo impiegano essenzialmente per situazioni che richiedano l’uso del buon senso e l’osservazione del “particolare”, per lo più questioni locali, amministrative, di quartiere, in decisioni inerenti a quella che si definisce democrazia partecipativa.
Ma esiste anche una recente apertura al sorteggio in quello che Hegel definirebbe il generale, in cui i cittadini, infatti, vengono interpellati su macroproblemi, con funzione consultiva. In Germania le cosiddette cellule pianificate sono piccoli gruppi che discutono su varie tematiche, soprattutto energetiche, così come il Debat Public in Francia, e analoghe giurie cittadine sono state allestite negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. Negli Stati Uniti il politologo James Fishkin è riuscito a far organizzare sondaggi deliberativi: non si indaga su cosa i cittadini pensano in un dato momento, quando galleggiano nel brodo della disinformazione, ma li si “cresce” in laboratorio per vedere cosa penserebbero se fossero informati. A un campione rappresentativo di persone viene consegnato un questionario su un argomento, dopo di che li si aduna per un periodo breve ma intensivo, tipo tre giorni, in un luogo dove gli esperti li bombardano di informazioni atte a educare il loro punto di vista e rispondono alle loro domande. Nel questionario successivo i risultati sono sorprendenti: i pregiudizi cadono e parecchi escono con idee differenti da quelle con cui erano entrati, ancor più quando i temi mettono in gioco la tolleranza o il conflitto tra valori opposti. Iniziative di questo tipo hanno preso piede anche nel Nord America e nel Nord Europa. In Francia i Debat durano quindici giorni e ottengono una discreta evidenza pubblica. Il riferimento ai “sondaggi” è utile perché ci ricorda come i sorteggi, in questi anni, non siano stati affatto espunti dalla vita pubblica. Cosa altro sono i sondaggi di opinione sull’operato del governo e dell’opposizione se non forme di consultazione di persone estratte a sorte con una funzione consultiva efficacissima, che nei fatti determina la classe politica ad agire in un modo o in un altro? Il sondaggio insegna qualcosa a tutte le estrazioni a sorte che hanno la pretesa di rispecchiare una comunità in miniatura: la rappresentazione per campioni. È chiaro che questo apre un altro fronte: come comporre i campioni da rappresentare? L’ideale sarebbe depurarli da ciò che non è oggettivo: quindi una divisione per età, classe sociale, quartiere, sesso, uno o più di questi o tutti assieme, a seconda dell’argomento di cui si dovranno occupare coloro che saranno sorteggiati.
Tanto più si insiste sulla oggettività del sorteggio, però, tanto più si sottintende l’auspicio di una valutazione “oggettiva” dei problemi da parte degli estratti a sorte. C’è il rischio che il sorteggio diventi un altro tassello “impolitico” e, in fondo, la posizione di rilievo attribuita agli esperti nel rischiarare le menti presuppone una sorta di procedimento giudiziario alla ricerca del “vero” nel quale gli esperti occupano una posizione peritale. È quindi necessario che oltre agli esperti (che peraltro sono in qualsiasi campo divisi più dei russi e degli americani al tempo della guerra fredda, e spesso non meno “ideologicamente”) vengano ascoltati i rappresentanti della classe politica e dei gruppi di interesse e si sottolinei ai giurati come ogni scelta politica, prima di essere considerata sul piano tecnico, sia una scelta tra valori. Potrò anche apprendere scientificamente che un’energia è più pulita di un’altra e altrettanto tecnicamente che il suo costo è diverso: la scelta tra le opzioni sarà legata allo scopo che si ritiene prevalente, e dunque alla classificazione di una gerarchia tra i vari tecnicismi. La fattibilità di un progetto in termini di costi quasi mai è assoluta ma dipende dal rapporto tra le risorse e gli obiettivi, che è la più politica delle decisioni. Sembra dunque eccessiva la preoccupazione di chi teme che il sorteggio possa distruggere la stessa possibilità di un progetto politico: anzi le idee avranno bisogno di maggior forza per circolare nella società una volta che per affermarle non basti conquistare il potere o aprire con i decisori politici un canale diretto di persuasione ma necessiti farle brillare agli occhi di un campione di persone, rappresentativo ma scelto casualmente.
Il proposito di Fishkin di rianimare le democrazia con i suoi sondaggi deliberativi appare debole proprio sotto il profilo cui egli più tiene, quello d’influenzare i rappresentanti del potere. Perché infatti a costoro dovrebbe interessare che cosa penserebbero i cittadini se fossero informati, una volta che non lo sono? Alla classe politica preme l’opinione pubblica effettiva, non quella ipotetica. Diverso sarebbe se i sondaggi deliberativi, o le giurie popolari, venissero dotati del potere di incidere in qualche modo sulla decisione. Ma quante giurie, e quando, si dovrebbero istituire? La soluzione migliore sarebbe quella di poter contare su una giuria istituzionale che possa sistematicamente intervenire su questioni di interesse pubblico. Proviamo allora a ragionare ambiziosamente.
Siamo tutti d’accordo sul fatto che la seconda Camera, in molti paesi e sicuramente nel nostro, non risponda a un apprezzabile interesse e finisca per essere un’inutile duplicazione. Può avere un senso dove c’è un decentramento federalistico: ma, salvo che non si tratti di un’autentica unione di stati, il federalismo mette a disposizione altri strumenti per far sentire la voce della singola regione e valorizzarne l’autonomia.
L’altro aspetto interessante è considerare che alcuni gruppi svantaggiati, se hanno poche possibilità di essere rappresentati qualora sfavoriti nell’equilibrio dei poteri sociali, certamente avrebbero maggiori chanche se dovessero affidarsi alla statistica di un sorteggio (e anzi la certezza se l’estrazione avvenisse selezionando prima i campioni rappresentativi).
Una costruzione non priva di fascino è stata proposta nel 1994 da un docente danese, Markus Schmidt, pensata sui numeri del paese in cui egli vive, che conta cinque milioni di abitanti. Per riavvicinare la moderna democrazia a quella greca, e introdurre elementi di democrazia diretta, Schmidt ha proposto di estrarre a sorte ogni anno settantamila cittadini e farne partecipanti di una seconda camera elettronica (quando scriveva oltre tutto la tecnologia era primitiva rispetto a quella attuale), nella quale impegnarsi da casa una volta alla settimana sulla base del materiale informativo ricevuto. Questa camera elettronica dovrebbe votare sulle leggi principali: essa funzionerebbe da credibile campione rappresentativo della popolazione dal punto di vista numerico e l’impegno assunto per un anno ne farebbe un pubblico dedito ad informarsi, e quindi somigliante a quello che Fishkin vorrebbe far emergere dai sondaggi deliberativi. Quando la Camera dei rappresentanti fosse in disaccordo con quella principale gli elettori dovrebbero essere chiamati a un referendum. Dal punto di vista della partecipazione, prevedendo un obbligo di rotazione, la popolazione danese passerebbe tutta per il parlamento.
È chiaro che in questo modello ci discostiamo del tutto dall’ipotesi deliberativa, visto che i deputati elettronici riceverebbero il lavoro a casa. Ed è veramente svilente, per il lavoro dei deputati eletti, metterli sullo stesso piano decisionale di gente che vota mentre fa colazione e sulla quale non è possibile esercitare alcun controllo di buona esecuzione della mansione.
Immaginiamo piuttosto un Senato con trecento rappresentanti sorteggiati, e una rotazione frequente: una durata annua per il singolo mandato ma un sorteggio semestrale con rinnovo di metà della Camera per garantire che la metà dei componenti abbia maturato un minimo di esperienza procedurale. Al Senato potrebbero essere attribuiti poteri di veto nei confronti delle decisioni prese dalla prima, purchè il veto sia sorretto da una maggioranza qualificata di due terzi. La procedura potrebbe essere raffinata lasciando ai due terzi il potere di “congelare” la decisione della prima Camera, nominando poi una ridotta commissione interna che, agendo come una giuria di cittadini, approfondisca la questione, discuta e deliberi infine se confermare il veto o rimuoverlo. Non escluderei neppure che il Senato possa intervenire nelle situazioni di stallo nella prima Camera quando, trascorso un certo tempo, questa non riesca a raggiungere alcun accordo su una materia in cui è altamente opportuno legiferare.
In questo modo si renderebbe differenziato il lavoro delle due Camere, riconoscendo la superiore competenza della prima, dato che fare le leggi è compito più arduo che bloccarle, e quand’anche, nell’ultima delle competenze che ho ipotizzato, il testimone passasse alla seconda essa beneficerebbe del lavoro sin lì svolto dalla prima e si limiterebbe, tutto sommato, a sbloccare un’impasse politico. Tenendo ferma la supremazia della prima Camera, la seconda ne salverebbe la legittimazione, proprio quella che è da tempo resa instabile dal suo discredito.
La rotazione della seconda Camera esonererebbe da analogo obbligo la prima, evitando l’ultimo passo verso la de-politicizzazione della politica. Una cosa è una regola di bon ton istituzionale, che dovrebbe suggerire ai dirigenti di non paralizzare il ricambio generazionale e agli elettori di punirli se non lo fanno, un’altra è lo svilimento di un mestiere complicato e che dovrebbe assommare un insieme di competenze e attitudini di altissimo livello. Naturalmente a far passare il concetto che interessarsi di politica sia accessibile a chiunque abbia un minimo di furbizia e onestà ( o disonestà) è stata proprio la classe politica, portando avanti questo tipo di retorica riduzionista nelle campagne elettorali e candidando ai seggi (ancor più che ai consigli comunali) individui del tutto inidonei a speculazioni astratte (quelle che dovrebbero guidare nelle scelte “pragmatiche”) e per i quali ci si sarebbe accontentati che seguissero almeno qualche corso al Cepu. Ma, a prescindere dalle pecche dei singoli e dei criteri di selezione, è difficile depurare un’assemblea elettiva da una strutturale propensione a deviare dall’interesse generale. Nel 2004 la provincia canadese della Columbia Britannica ha affidato a un’assemblea cittadina estratta a sorte il compito di redigere un progetto di riforma elettorale che è stato poi proposto pari pari ai cittadini per la ratifica referendaria (un’esperienza analoga è stata ripetuta in Ontario). Gordon Gibson, consigliere del Primo Ministro, rilevando che “le decisioni sono influenzate dagli esperti o dagli interessi particolari, quando non ne sono completamente dipendenti” gli contrapponeva “la presa in conto dell’interesse pubblico espresso da campioni di cittadini sorteggiati” e introduceva una distinzione tra rappresentanti eletti che “per un lungo periodo di tempo, e in quanto professionisti, possono agire in nostro nome con una competenza legale illimitata” e un tipo nuovo di rappresentanti “scelto dal caso, per un periodo di tempo determinato, in veste di cittadini ordinari e per compiti specifici e limitati”. Non sembra una descrizione poi così lontana da quella di una seconda Camera sorteggiata.
La finale obiezione che si potrebbe rivolgere all’esistenza di una Camera sorteggiata è tuttavia proprio la debolezza che le deriverebbe dalla compresenza di istituzioni rappresentative. Non sarebbe troppo facile per gli eletti mettere alla berlina l’opinione dei sorteggiati, contestando che essi, limitando il potere di chi ha ricevuto volontariamente un mandato, stiano usurpando quella volontà che in forza di una stupida statistica pretendono di rappresentare? Se si desse a quella Camera un potere, almeno indiretto, di ingerenza sull’azione di governo, con il veto sulle leggi che vengono presentate alla prima Camera per l’approvazione, non sarebbe una pacchia per il Berlusconi di turno additarle a nemiche del popolo, come si fa con la magistratura? La risposta è nella necessità di istituire la seconda Camera con un referendum costituzionale. A quel punto sarebbero pari: voluti dal popolo i singoli governi e i singoli parlamentari e voluta dal popolo la seconda Camera estratta a sorte. A essere precisi, la legittimazione su cui si fonda un governo di rado è superiore al terzo degli aventi diritto al voto, e dunque esprime una netta minoranza dentro il paese. Se un referendum tecnicamente incomprensibile al pubblico come quello appena svolto, che è di fatto divenuto un sondaggio di gradimento su premier, ha mobilitato l’Italia, pensate a cosa accadrebbe per una consultazione su uno sviluppo tanto radicale della democrazia. Se il sì vincesse con un quorum alto la legittimazione del sistema sarebbe superiore a quella che può vantare un semplice e contingente governo.
Ci sarebbe qualche partito che accetterebbe, nel referendum, di promuovere una novità anti-elettiva? Probabilmente sì. Basterebbe capire che un’autolimitazione è esattamente quanto si aspetta il pubblico, attualmente, e che farla nell’ottica di una differenziazione istituzionale sarebbe più intelligente delle sforbiciate buone giusto a ridurre quei quattro stipendi che, nella fantasia popolare, costituiscono il modo per risanare i bilanci.
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