Ormai non è una novità, ma il dato più impressionante della elezioni per il Parlamento Europeo è la volatilità elettorale. In Italia il fenomeno è macroscopico: proprio le Europee, nel 2014, incoronarono Renzi con un quaranta per cento che si sarebbe sgretolato nel giro di un anno. Questa volta il dazio lo pagano i Cinque Stelle, che vedono quasi dimezzati i voti delle elezioni politiche ma non meno incredibile appare che la Lega di Salvini i voti li abbia raddoppiati. Le due circostanze, messe insieme, già danno conto di quanto la volatilità elettorale sia un fenomeno complicato da spiegare: in fondo i due partiti hanno trascorso questo tempo insieme al governo, e teoricamente il malumore o l’entusiasmo verso uno dei due dovrebbe trovare riscontro in un analogo sentimento collettivo nutrito verso il partner.
Ma sarebbe un errore focalizzarsi solo sull’Italia. Chi poteva immaginare che nel volgere di pochi anni i tories di governo sarebbero precipitati sotto il dieci per cento, quinti in una competizione elettorale che un tempo si focalizzava sul bipolarismo tra i laburisti e i tories? Vero, le cifre italiane erano già impressionanti: nel 1979, per dire, l’indice di volatilità elettorale, cioè il tasso di cambiamento netto di voti tra due elezioni successive era del 4,9%. Nel 1996, metabolizzate la scomparsa della Democrazia Cristiana e la discesa in campo di Berlusconi, era ancora un quieto 12,3%. Ma con la crisi economica le turbolenze sono divenute irrefrenabili: 36,7% nel 2013 e 26,7% nel 2018. E però spostandoci in Germania anche scopriamo che lo scostamento dal bipartitismo in 25 anni è stato di 25 punti, e la frammentazione è un segnale di volatilità. Cosa dire della rapidità con cui Macron ha dilapidato il suo tesoretto? O insomma, e per citare un esempio che basta per tutti: come è stato possibile che gli Stati Uniti siano passati da Obama a Trump? Se poi ci soffermassimo ad analizzare le realtà più piccole (da ultima la Slovacchia) le statistiche della volatilità si impennerebbero.
La spiegazione, di solito, viene fatta risalire alla fine della guerra fredda e allo scioglimento dei due blocchi ideologici che animavano la contesa elettorale in tutti i paesi del mondo. I partiti politici erano rappresentanti di una visione piuttosto compatta del mondo, e fornivano un senso di appartenenza che puntellava le identità personali. Le fratture profonde erano riconducibili a pochi concetti essenziali, dei quali è rimasto – in alcuni paesi con spinte autonomistiche – quello tra centro e periferia. E si tramandavano familiarmente. Un’indagine di Lazersfeld alle fine degli anni ‘50 evidenziò che il 77% degli americani votava come avevano votato i loro genitori. Aggiungiamoci la solfa che destra e sinistre sono distinzioni superate (ne avevo scritto qui).
Questo si dice. Però, al tempo stesso, affermiamo di solito anche un’altra cosa: che le nuove tecnologie tendono a compattare tra loro quelli che possiedono le medesime idee e rinforzano i pregiudizi. Ci rendono più duri da scuotere nelle convinzioni, nuovamente divisi in tribù, polarizzati.
Una simile tesi, tuttavia, cozza contro la volatilità. Se i social network spingono a frequentare solo quelli che la pensano come noi, perché nelle urne le preferenze cambiano continuamente? Aggiungerei un rilievo sull’Italia: la nostra inesistente crescita demografica rende molto basso il peso nelle urne del ricambio generazionale. Quindi sono proprio le stesse persone a modificare il proprio voto nel tempo.
Prima di azzardare qualche risposta alternativa è opportuno domandarsi: è davvero una faccenda disgraziata la volatilità elettorale? In fondo i paesi con una maggiore stabilità sono quelli africani, e ciò dipende dal fatto che i partiti tradizionali governano con clientele, corruzione e brogli. Il nostro dinamismo potrebbe anche essere prova di salute democratica.
C’è un dato, tuttavia, che suona particolarmente inquietante: In Europa (quindi non solo in Italia) fino a due settimane prima la percentuale di indecisi era di circa il settanta per cento di quelli che erano intenzionati a votare.
Nelle scelte, in qualsiasi scelta, è comprensibile che talvolta si possa essere indecisi. Potremmo ipotizzare che quel settanta per cento fosse impegnatissimo ad analizzare i programmi dei candidati, rigo per rigo, ma dobbiamo riconoscere che non è così probabile, non almeno per la maggior parte. Quel che se ne ricava è che quel congruo numero di persone metteva in conto che in quelle due settimane potesse accadere qualcosa che avrebbe orientato il suo voto. Qualcosa di piccolo e privato, del genere trovarsi la multa per divieto di sosta appena usciti al mattino, e incazzarsi. Qualcosa di pubblico e più eclatante, tipo un post eccitante su Facebook di un leader o un episodio di cronaca. Non c’era in nessun paese nessuna legge da varare in quella settimana, né previsione di eventi in grado di ribaltare le convinzioni politiche. Settanta persone su cento dicevano: oggi voterei così, fra due settimane non lo so. E’ chiaro che a fronte di due settimane un anno o due rappresentano un’eternità.
Questo tipo di incertezza mette un po’ in crisi tutte le spiegazioni che fanno leva sulla tipologia di voto che muove i singoli individui. Che il voto sia idelogico, di scambio, di devozione al carisma del leader o di opinione (le quattro categorie principali usate nella dottrina politica) è difficile pensare che sia suscettibile di modifiche nel corso di due settimane. Sì, qualche volta può capitare che un elettore informato sia diviso tra un’adesione ideologica e un voto di convenienza, o qualcosa del genere. Ma quanti casi saranno? Il cinque per cento, se vogliamo largheggiare. Rimangono tutti gli altri. Oltre agli astenuti.
È ragionevole che un voto volatile possa avere anche delle spiegazioni volatili, che cambiano per luogo e per tempo. Ad esempio, dato che il 90% degli svedesi crede nell’utilità pratica del proprio voto in Europa mentre il 76% degli italiani e l’84% dei greci pensa che il proprio voto non serva a nulla, le cause della volatilità di queste nazioni tenderanno di sicuro a divergere tra loro.
Ciononostante almeno tre tendenze generali della volatilità nel momento attuale possiamo azzardarle.
La prima è che il voto politico dovrebbe essere un voto di sintesi: non condivido tutto quel che propone un partito ma soppeso i pro e i contro e ne scelgo uno. Il voto clientelare è sempre stato un voto impropriamente politico: chi vota per scambio considera solo un aspetto, il suo personale tornaconto, e vota in funzione di quello. Ma un minimo di cultura e informazione politica, per effettuare la sintesi, bisogna possederla. Altrimenti ogni questione potenzialmente politica diventa fine a se stessa, e perde per questo la sua prerogativa di questione politica. E il punto è proprio questo: la volatilità del voto non è altro che il riflesso della volatilità, per lo più effimera, degli interessi o delle fobie o delle vicende personali. Quella che formalmente è un’elezione politica consiste in realtà in un blocco di referendum (pro e contro l’emigrazione, pro e contro l’aumento degli stipendi pubblici, pro e contro i combustibili) e ciascuno partecipa al suo, senza tenere troppo conto degli altri. Non dico che sia per tutti gli elettori: ma è così per una discreta porzione degli elettori volatili. Così la loro scelta dipenderà da circostanze relativamente casuali, e cioè dal fatto che ragioni pubbliche o personali abbiano mantenuto quell’interesse specifico come il più visibile e importante per loro. In altre parole, ogni volta che l’elettore cambia interesse primario partecipa a un referendum diverso da quello a cui avrebbe partecipato prima, e determina un voto differente. Né i partiti hanno l’intenzione di riunire gli interessi e proporre una sintesi politica (il moderno partito flessibile viene definito partito “pigliatutto” intendendo che pesca consensi in aree sociali, locali e anagrafiche non omogenee; in realtà è pigliatutto perché compone interessi ed emotività fra loro incompatibili dentro una sintesi coerente). Viene persino difficile stabilire se i voti persi da un partito si sono spostati dentro lo stesso campo in quello opposto: qual è oggi il campo dei 5 stelle, l’area elettorale più vicina (la vecchia sinistra) o l’alleato di governo?
La seconda tendenza precisa, quasi corregge, quella appena indicata, in cui per semplicità espositiva mettevo sullo stesso piano votare pro e votare contro. In realtà, da dieci anni (dalla crisi del 2008), i partiti politici, specialmente quelli nuovi, non cercano di guadagnare il consenso bensì di far montare il dissenso, mettendosi dalla parte dei dissenzienti. Questa forma di equilibrismo, in cui Trump è stato maestro, consiste nel dichiararsi e manifestarsi contro il “sistema” anche quando, per effetto della vittoria elettorale, si è ormai al vertice del sistema. Il potere logora chi dichiara di averlo, e per questo è sempre necessario fingere che stia da un’altra parte: nella stampa, nelle istituzioni europee, nella magistratura. Salvini ha recitato questa parte (raccogliendo una grande immedesimazione dei suoi votanti per lo sprezzo delle regole) assai meglio dei Cinque Stelle. Detto di passaggio, questo genere di rancorosità permanente (esasperata dall’insoddisfacente situazione economica) rende attualmente anacronistica la corsa al centro che ha caratterizzato le elezioni fino al 2008, quando tutti sentivano di avere qualcosa da difendere. Oggi si vince sulle ali estreme. Quanto meno nella comunicazione.
La terza tendenza è che il cambiamento costante è la chiave estetica della vita contemporanea, la naturale prosecuzione del consumismo e del moto incessante del desiderio, e destina anche il leader politico a una sorta di obsolescenza programmata. Una società liquida produce uno stato politico gassoso. Arrivati a questo punto, in Italia, c’è persino da sperare che questa dinamica non cambi troppo presto.
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