Venti minuti iniziali di spoglio ed esemplare realismo sociale. Una tesa udienza dove si discute dell’affido di un minorenne; davanti a un giudice donna, dall’aspetto assai dimesso ma risoluta e coscienziosa; due avvocati donna dallo stile diverso (una più tribunizia e l’altra oggettivizzante, con i pregi e i difetti che entrambi gli approcci comportano in una causa di questo genere);
i due ex che non si guardano in faccia e offrono sfuggentemente le opposte versioni dei fatti e sembrano sempre nascondere la mano che ha tirato il sasso. Potrebbe essere una scena teatrale, per l’assoluta e condensata unità di spazio, luogo e azione e potrebbe essere un documentario girato dentro una vera aula di tribunale, ma Xavier Legrand sa farne, senza la minima deviazione dalla verosimiglianza, un evento squisitamente cinematografico grazie al gioco delle inquadrature e delle angolazioni dei personaggi che mette in scena i loro rapporti e le loro aspettative. Rispetto alla media delle cause di affido c’è un particolare insolito che rende la decisione ancora più difficile: il piccolo Julien, il minore conteso, ha reso una dichiarazione contro “quello”, come chiama il padre, in cui manifesta il desiderio di non vederlo più e il timore che possa ancora far del male alla madre. Da una parte c’è la richiesta di non contraddire una sensibilità tanto afflitta, dall’altra si insinua il dubbio di un’influenza materna che punta a recidere insanamente uno dei due legami genitoriali. Non assisteremo a una battaglia giudiziaria perché la decisione arriva immediata ed è la concessione al padre di trascorrere un week-end su due con Julien. Qui comincia progressivamente un altro film (e se ne continua anche uno precedente, dato che la traccia, con gli stessi attori, Denis Menochet e Lea Drucker, era già stata proposta dal Legrand nel suo primo cortometraggio, nel 2013).
Non è giusto rimproverare a L’affido (Leone d’Argento a Venezia) di non cogliere le sfumature. Anzi a lungo vengono rese perfettamente, e insieme all’indole violenta e manipolatrice del padre emerge una colpevole incapacità della madre di proteggere il figlio, gravandolo del compito abnorme di farle da scudo (anche nelle scene finali, dove è chiamata a una protezione fisica, lo affianca ma non si frappone) e tutta la relazione appare viziata da un pesante analfabetismo comunicativo. La scelta di deviare verso la psicopatia del padre, talmente radicale da ramazzare fuori tutti i fattori di complessità, può essere vista quale concessione commerciale al pubblico (risucchiato in un’evoluzione alla Shining) o come abile rimescolamento delle aspettative. Ha però il torto obiettivo di rendere inutile quell’intrigante materiale di indagine psicologica che aveva raccolto. Ed è dubbio che valga come denuncia sociale dello stalking ex-coniugale, una volta incasellato tanto pesantemente nell’abnormità individuale. Certo, lui somiglia a un orco, ma dovremmo forse dedurne che aveva ragione Lombroso e che nella criminalità le apparenze non ingannano? Non c’è una sola situazione, messa in scena o richiamata, dalla quale risulti che le autorità e le istituzioni hanno ignorato le richieste di soccorso della donna. Ci verrà mica suggerito che quell’aria maltenuta della giudice suggerisse che era meglio stesse a fare la calza, visto che non ha saputo leggere tra le righe? A chi è rivolto il monito? Francamente non è per nulla chiaro.
Pur nel naufragio del possibile obiettivo sociale, il film è fortemente coinvolgente e Legrand maestoso nel rendere visibile l’invisibile e nell’accumulare implacabilmente tensione attraverso la macchina da presa: nelle scene familiari, dove quasi sempre c’è un personaggio e mezzo, perchè uno è reso più nettamente e l’altro inquadrato senza sfocature ma spazialmente appena il giusto per appoggiare il contesto psicologico; in un felicissimo montaggio della festa di diciottesimo compleanno della sorella di Julien, che fonde l’incombenza muta dell’orco e la sonorità sovrastante della baldoria musicale; nell’escalation della minaccia violenta, ispirata quasi scolasticamente, ma da primo della classe, al modello hitchcockiano (peccato per l’ultimissima scena: dopo che avete visto il film ditemi poi se non è un’involontaria e puerile macchietta). E, notevole perla a sé, un test di gravidanza che si svolge e si rivela in un’unica inquadratura fissa sui pantaloni dal polpaccio in giù da sotto la porta di un bagno, una scena che poteva pensare giusto Danny Boyle in Trainspotting.
L’affido
Film
Xavier Legrand
Votazione finale
I giudizi
Perfetto
Alla grande
Merita
Niente male
Né infamia né lode
Anche no
Da dimenticare
Terrificante
Si salvi chi può
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