Recensione del film “Ariaferma”

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La principale occupazione di un detenuto è sostanzialmente quella di attendere: la fine della pena, la fine della giornata così difficile da riempire, la visita dei parenti, la fine del processo (per i tanti in attesa di giudizio), il provvedimento di misura alternativa, la risposta alla “domandina” di una micro-concessione che renda appena meno greve la vita quotidiana, che qualcosa infranga la monotonia. Nel film “Ariaferma” questa condizione viene rappresentata all’ennesima potenza, avviluppando anche gli agenti di penitenziaria. Un carcere sgarrupato della Sardegna è pronto alla chiusura, e ormai smantellato nel funzionamento dei servizi, ma un imprevisto costringe a una proroga dodici detenuti (che poi diventano tredici) e un gruppetto di agenti che rimangono a sorvegliarli. Per un tempo che dovrebbe essere molto breve ma è del tutto indeterminato, il carcere rimane quel luogo di contenimento che è, ma cessa in quanto struttura. Spogliato del suo apparato, viene mostrato nella sua nuda irrazionalità e scatena la protesta dei detenuti. A ripristinare una forma di equilibrio servirebbe uno spostamento della relazione agenti-detenuti, del resto mai così assoggettati a un comune destino privativo. Però gli agenti sono riluttanti, non disumani, tutt’altro, e però abituati a camuffare la gentilezza e mostrare il lato dominante del controllore, per il timore che un’apparente cedevolezza possa ribaltare l’andamento del gioco di potere che si rappresenta in una prigione, e che è tarato tuttavia sul lungo periodo: ma nel carcere di Mortana (così si chiama nella finzione il dismesso carcere sassarese di San Sebastiano) la prospettiva del tempo si è ormai dissolta.

L’ispettore di polizia cui è stato assegnato il comando provvisorio, Gaetano Gargiulo (Toni Servillo) e il leader del malumore fra i reclusi, Carmine Lagioia (Silvio Orlando) diventano i due poli di questa tensione, della reciproca diffidenza, della sfida di sguardi, della doppiezza interiore per sopravvivere, della spinta verso la solidarietà e la cura del sofferente (che entrambi fanno confluire su un giovane detenuto, il cui terribile crimine è stato generato da una temporanea perdita di consapevolezza), del gioco di ruoli che non può esimersi dal cercare la breccia dell’animo altrui per violarla. Il tutto intraprendendo un percorso che dalla convivenza in una cucina (nella quale, dopo uno sciopero della fame, Lagioia è autorizzato a preparare i pasti sotto la diretta sorveglianza di Gargiulo) può arrivare fino alla ricerca congiunta e competente delle verdure sopravvissute nell’orto abbandonato e alla scoperta della prossimità sociale delle radici familiari.

Come Lagioia deve arrangiarsi ai fornelli con quello che c’è in frigo, così il regista Leonardo Di Costanzo si costringe e ci costringe dentro un campo d’azione e scenografico quasi nullo, una struttura circolare panottica che non solo egli elabora magistralmente dal punto di vista estetico ma che assurge a potente e rigenerata metafora dell’universo carcerario, oltre lo schema di vigilanza pensato dal filosofo Bentham. Forse sollecitato dalla sapienza di documentarista così adatta al tema, Di Leonardo è straordinario nell’incasellare ogni scelta d’immagine nel disegno narrativo e soprattutto nella trama delle relazioni, ammorbidendo e infine negando, solo quando la situazione psicologica lo consentirà, la rigorosa divisione in campo e controcampo tra agenti e detenuti e anche la resa nello sfuocato dell’opacità che contraddistingue l’intero agire penitenziario.

La tensione visiva sfocia nella tensione per la scintilla che può innescare l’esplosione. Delle vite personali, nemmeno dei reati (salvo che per due) non sappiamo nulla: l’equilibrio tra la potenza dell’astrazione e la brutale fisicità delle mura e dei corpi malmessi è assoluto e mirabile. Nell’attesa dell’ordine, a causa di un black-out, viene a mancare pure la luce. Un disagio estremo (di nuovo un’efficace scelta narrativa e un’azzeccata proiezione metaforica), e ai personaggi non rimane che la scelta di immergersi separati nelle tenebre o finalmente di sfiorarsi e vedersi con occhi nuovi nella comune umanità. Mi è difficile immaginare un solo agente o detenuto che resti indifferente al messaggio di questo potente film.

Ariaferma

Leonardo Di Costanzo

Votazione finale

I giudizi

soli_4
Perfetto


Alla grande


Merita


Niente male


Né infamia né lode


Anche no


Da dimenticare


Terrificante

ombrelli_4
Si salvi chi può

Anche se prevale un tono leggero e una gradevole vena di humor, la documentazione è solida, gli esempi fitti e illuminanti

Corrado Augias, Il Venerdì

Un trattato, mica bruscolini. Il trattato, infatti, tipo quelli di Spinoza o di Wittgenstein, è un’opera di carattere filosofico, scientifico, letterario (...) E così è. Nel suo trattato Bassetti espone il come e perché dell’offesa.

Francesca Rigotti, Il Sole 24 ore

 

C’è un passo in cui di Bassetti dice che questo è un tema sorprendentemente poco esplorato...Non lo è più da quando c’è questo libro

La conclusione del conduttore di Fahrenheit – Tommaso Giartosio

 

Queste sono le tre ragioni per cui ci si offende:

  1. Hai detto male di me

  2. Hai violato un confine

  3. Non ti sei accorto di me come, e quanto, avresti dovuto

Di |2022-01-07T11:21:29+01:0026 Novembre 2021|Il Nuovo Giudizio Universale|

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