Recensione del film “Belfast”

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Sulla scia di colleghi registi come Cuaron e Sorrentino, Kevin Branagh gira un film autobiografico sulla sua infanzia e il luogo natale: nel suo caso, Belfast, della quale tanti hanno dimenticato la sanguinosa guerra civile tra Unionisti Protestanti e Cattolici che l’attraversò. E dopo una spruzzata di colore sulla dinamica città irlandese di questi anni, Branagh ci fa piombare nel bianco e nero dell’estate del 1969, che rappresenta il tempo filmico: nella prima scena d’epoca, l’alter ego del Branagh bambino, Buddy, (Jude Hill, col suo volto di una straripante ricchezza espressiva) cambia vita come noi spettatori cambiamo approccio cromatico. Sta giocando a palla in strada, quando i protestanti irrompono armati per mettere a ferro e fuoco il quartiere: una scena di immediata violenza collettiva scioccante, sullo stile di Salvate il soldato Ryan. Buddy, peraltro, appartiene a una famiglia protestante, che però non ha raccolto il seme dell’odio e vive in pace e contiguità con i cattolici, suscitando la riprovazione e attirando le minacce dei membri più scalmanati delle sommosse. Il padre di Buddy è un carpentiere che lavora in Inghilterra, e quindi è spesso assente anche per settimane di fila, ed è compresso dall’angoscia di non proteggere a sufficienza la famiglia e tentato dall’emigrazione a Londra, alla quale i due figli e ancor più la moglie si oppongono. Belfast alterna la parte pubblica della storia con le peripezie e le gioie di Buddy: le conversazioni con i nonni, il tentativo di conquistare il cuore di una sua compagna di classe attraverso tortuose manovre strategiche, la cattiva influenza di una cugina più grande che cerca di avviarlo al furto e poi al saccheggio, la passione del cinematografo e soprattutto del western.

In Belfast sarebbe difficile tenere il conto delle scene tenere: lo sono certamente gli unici passaggi al colore (a parte la prima e l’ultima scena) dedicati a una recita teatrale o ad alcuni spezzoni del film, un modo per Branagh di fare autobiografismo per metafora; o il suo bottino del saccheggio, un detersivo biologico, che continua a stringere tra le braccia mentre il contesto intorno diventa teppistico e terrorizzante. Ed è tenera anche la scelta di privilegiare il punto di vista di Buddy nella percezione visiva ed emotiva degli eventi, rendendo normale che l’intervento del padre contro un soggetto minaccioso discenda direttamente da Mezzogiorno di fuoco, che era appena passato sullo schermo davanti agli occhi di Buddy. Innegabilmente, però, questa scelta, significa anche meno lavoro: Branagh non ha da affaticarsi nello scavo psicologico dei personaggi, tanto sono stilizzati il giusto che serve per riflettere uno sguardo infantile, e per la stessa ragione ci lascia sconosciuta una città d’epoca che ci aveva preso voglia di scoprire. Una scelta di questo genere, però, avrebbe richiesto di essere sposata fino in fondo e con esiti più originali: Branagh, invece, concede ad altri, in particolare ai genitori di Buddy, delle fasi di appropriazione della prospettiva, ma senza cambiare il registro filmico: il risultato è una forte penalizzazione di quei due personaggi, che avrebbero le carte in regola per suscitare interesse e attaccamento, ma ahimè ci giungono smorzati, irreali, un po’ ottusi, un po’ finti, così come parecchi dei comprimari (il nonno, in compenso, è un personaggio fenomenale).

Tecnicamente il film è eccellente, ma non perfetto. Le scene di azioni sono incomparabilmente più riuscite di quelle in interno; le inquadrature dal basso sono troppe e non giustificate, l’indugio sui volti fissi non di rado sforante; la sceneggiatura è scoppiettante quando vira verso il comico, molto banale nei dialoghi più accesi. La musica di Van Morrison è integrata meravigliosamente, la foto senza mai una sbavatura. Branagh lascia un marchio di autenticità umana (favorita dal reclutamento di tanti, ottimi attori irlandesi) ma in quei ricordi è forse troppo coinvolto per catalogarli in un vero album. Per quanto il film sia piacevole per larghi tratti, l’effetto complessivo è bozzettistico: non è che sia un crimine, ma basta saperlo.

Belfast

Kenneth Charles Branagh

Votazione finale

I giudizi

soli_4
Perfetto


Alla grande


Merita


Niente male


Né infamia né lode


Anche no


Da dimenticare


Terrificante

ombrelli_4
Si salvi chi può

Volevo fare un piccolo regalo ai lettori del wrog, in questa Pasqua tanto strana. Così ho pensato di raccogliere in un eBook tutte le recensioni cinematografiche scritte in oltre tre anni.

 

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Cercate di trarre di buono tutto quel che potete da queste giornate pasquali, e auguri.

Anche se prevale un tono leggero e una gradevole vena di humor, la documentazione è solida, gli esempi fitti e illuminanti

Corrado Augias, Il Venerdì

Un trattato, mica bruscolini. Il trattato, infatti, tipo quelli di Spinoza o di Wittgenstein, è un’opera di carattere filosofico, scientifico, letterario (...) E così è. Nel suo trattato Bassetti espone il come e perché dell’offesa.

Francesca Rigotti, Il Sole 24 ore

 

C’è un passo in cui di Bassetti dice che questo è un tema sorprendentemente poco esplorato...Non lo è più da quando c’è questo libro

La conclusione del conduttore di Fahrenheit – Tommaso Giartosio

 

Queste sono le tre ragioni per cui ci si offende:

  1. Hai detto male di me

  2. Hai violato un confine

  3. Non ti sei accorto di me come, e quanto, avresti dovuto

Di |2022-03-18T16:36:11+01:0018 Marzo 2022|2, Il Nuovo Giudizio Universale|

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