Come dovrebbero porsi nel giudizio, il critico o lo spettatore, davanti al film di un grande autore? Dovrebbero assestarsi su un ideale grado zero, considerare il regista un fattore inquinante dell’obiettività (un elemento di rumore, secondo l’economia comportamentale) e sforzarsi di guardare tutto con occhi vergini, come se la pellicola l’avesse girata un qualsiasi carneade? Se così fosse (per il momento prendiamola come ipotesi) bisognerebbe ammettere che il quarantesimo film da regista (anche interprete) di Clint Eastwood, Cry Macho, è un film scarsino. La trama è semplice, nuda: Mike, un vecchio e logoro cowboy da rodeo (siamo negli anni settanta) attraversa la frontiera con il Messico per riportare ad un amico ex boss il figlio Rafa, che questi ha concepito tredici anni prima e che non vede più da sette. Il ragazzo vive con la madre, più o meno però, perché secondo le lamentele di questa pia donna (dico per sfottere, eh? poi la vedrete che tipo!) passa il tempo in strada a più o meno a delinquere e il suo core business è il clandestino azzuffamento dei galli. Mike però poco ci mette a persuadere il giovinotto che rivedere un padre che forse (forse) lo ama è un ottimo motivo per imbarcarsi nel viaggio, portando con sé il prediletto e combattivo beccuto, battezzato Macho, perché è tosto assai: la mamma, che dopo tre minuti già appare meno adeguata di Clint nel ruolo di genitore, piazza alle loro calcagna un suo sgherro, che nei film dell’epopea western sarebbe schiattato alla prima inquadratura, mentre puliva la colt. Comincia il film on the road, ma non dura tanto, sopraffatto da una lunga sosta in un paesino sonnolento, edenico (e pieno di animali bramosi delle cure del versatile Mike, che è pure veterinario, senza “licenza”) nel quale una vedova dai sentimenti immacolati si prende cura del duo: che poi, però, deve sottrarsi alle ricerche dei federales (tecnicamente si sta svolgendo un rapimento), dello sgherro e comunque puntare verso la meta, anche se alla fine per una serie di ragioni l’affiatato tandem deve confrontarsi con dei suggestivi chissà però esistenziali.
I fondamentali sono di basso profilo: piatto il plot, sbagliati i costumi, parrocchiale la recitazione (s’intende, a parte il protagonista), insulso lo spessore psicologico dei protagonisti, troppo invisibile la macchina da presa. Ma, ma…non è che in questo modo, invece di eclissare la personalità di Eastwood, stiamo al contrario esprimendogli sordo rancore per non essere stato all’altezza del suo cinema? Perché, se lo approcciamo con occhio veramente spoglio, Cry Macho lo riconosciamo come un buon film disneyano. Il sorprendente Clint ha messo su una specie di tipico cartoon dei buoni sentimenti e dell’esagerata perfidia, con tanto di fisionomia da animazione di Rafa e della vedova, sognante disinteresse per la verosimiglianza, la quota di coinvolgente tenerume che rende a tratti incantevole la sua lentezza. I dialoghi della versione originale sarebbero eccellenti per un corso pre-intermediate di apprendimento della lingua: sono semplici, più di quelli che offrono di solito i film natalizi di animazione, ma non poi così banali, cioè sono appropriati alla distanza culturale tra il gringo e il niño, e tutto il brulicare messicano, e al relativo sforzo di comprendersi. E servono a far passare chiaramente i messaggi che interessano al regista, in vena più conversazionale del solito. Quali messaggi? Il machismo è una stronzata, nella vita le cose le capisci troppo tardi.
Non esattamente Kant. Ma qui torniamo alla questione originale, se si debba purgare il film d’autore della sua autorialità storica, almeno ai fini del giudizio. E la risposta è negativa: a parte che non siamo capaci di fare diversamente (se dovessi fare un esempio dell’essere-gettato di Heidegger, direi: quando vai al cinema o leggi un libro e già conosci e ami l’autore), nemmeno sarebbe giusto, perché il sigillo del grande autore è quello di fare della sua stessa opera un continuum espressivo e a volte ideologico, dentro il quale è un gusto apprezzare o discutere l’eccesso di coerenza, o al contrario gli strappi. Ogni film diventa il tassello di un unico mosaico: così, in una miriade di sequenze di Cry Macho peschiamo schegge estetiche e quasi citazioniste di vecchi film eastwoodiani (dai recenti Gran Torino e The Mule a I ponti di Madison County o Il cavaliere pallido); e, quanto all’ideologia, tutta l’ultima produzione è un paziente smantellamento della violenza reazionaria di quella precedente. E l’attore Eastwood, la sua caparbietà nel mettersi ancora in gioco a 91 anni? Fino a The Mule potevamo dire che si ritagliava trame su misura, che gli consentissero di rimanere con dignità sullo schermo. In Cry Macho questo è vero solo in teoria. Gli sguardi lascivi o di progettualità familiare che ancora rivolgono le bellone a quel vegliardo ci fanno pensare: ecco, ora si renderà ridicolo e ne saremo tristi. Obiettivamente sono la maggiore caduta di stile. Ma in fondo anche un ulteriore riscontro dell’assoluta libertà artistica che può concedersi un uomo talentuoso capace di abbinare, nell’invecchiamento, la meditazione autocritica e una gagliarda auto-indulgenza. E rimanere vitale grazie a un simile equilibrio.
Cry Macho
Clinton Eastwood
Votazione finale
I giudizi
Perfetto
Alla grande
Merita
Niente male
Né infamia né lode
Anche no
Da dimenticare
Terrificante
Si salvi chi può
Corrado Augias, Il Venerdì
Francesca Rigotti, Il Sole 24 ore
La conclusione del conduttore di Fahrenheit – Tommaso Giartosio
Queste sono le tre ragioni per cui ci si offende:
-
Hai detto male di me
-
Hai violato un confine
-
Non ti sei accorto di me come, e quanto, avresti dovuto
Scrivi un commento