Non so se qualcuno vorrà fare l’esperimento, perché vederlo una volta sola, l’ultimo film di Michael Haneke, basta, e forse avanza: ma sarebbe interessante, Happy end, vederlo una seconda volta, all’incontrario, seguendone il riavvolgimento. Probabilmente, nella prima scena,rimarremmo colpiti dall’uso documentaristico e perverso che una tredicenne fa dello smartphone, esattamente come nella versione dall’ordine corretto, poiché è così che circolarmente si conclude il film.
E nella fase finale del riavvolgersi penseremmo della giovane Eve:
“Eh, addirittura! Ma questa è proprio irrecuperabile”, trovando il finale ancora più bieco e crudele del principio, come in realtà ci era capitato con la sequenza giusta. Ma soprattutto, ne sono convinto, ribaltando l’intreccio (l’ordine del regista) avremmo non soltanto la medesima storia ma anche, per grandi linee, lo stesso intreccio e dovremmo ammettere che Haneke più che girare un film ha scattato una fotografia, un’istantanea che riproduce quel che resta di una dinastia familiare una volta che le si è sottratto tutto: le emozioni, l’intraprendenza, la rapacità, l’operosità, buona parte delle risorse economiche e persino il cinismo, che è già troppo impegnativo per un’accolita di ectoplasmi, ed è ridotto a riflesso condizionato dell’indifferenza e del tedio.
L’azione (per così dire) si svolge a Calais, scelta come paradigma degli opposti incrociarsi globali dei destini, dato che oltre a svernarvi i ricchi e sudarvi (e morirci) gli operai portuali vi giungono i migranti, che nel film fanno una comparsata finale più che altro di valore simbolico. La famiglia in questione comprende il patriarca (Jean-Louis Trintignant) che fallisce quotidianamente nei suoi tentativi di suicidio, i due figli, uno (Mathieu Kassowitz) che fallisce nelle relazioni affettive per mancanza di affettività, l’altra (Isabelle Huppert) che fallisce nei tentativi di salvare le apparenze, il figlio di lei che fallisce nell’assumersi un qualche tipo di responsabilità e anche nell’abbozzare un qualche tipo di ribellione, e l’ultima arrivata Eve, che è il comprensibile epigono di quello sfacelo umano. I quadretti più deprimenti sono quelli in cui sono in gruppo, senza ovviamente alcuna attitudine a coordinare i rispettivi stati mentali. Molte inquadrature fisse riproducono la stasi interiore, i movimenti di macchina tallonano per lo più alle spalle o lateralmente, se la camera si sofferma sui volti e sui corpi lo fa gelidamente e restituendo l’impressione che non ci sia nessun altro a osservare, perché non esistono nel film veri sguardi e non a caso mancano quasi del tutto le riprese in soggettiva. La sceneggiatura, correttamente scabra, apre però lo spettatore ad attese che mai vengono soddisfatte (emblematico il dialogo tra Trintignant e la piccola Eve), tant’è che più interessanti sono quel paio di scene (con eco di Bunuel) in cui le parole vengono sommerse e rese inudibili dal frastuono circostante. Nella vacuità dell’ambiente quello che sarebbe un marchio stilistico, una sorta di citazione interna che fa di Happy end una finta continuazione della precedente pellicola di Haneke, Amour, diventa un peccato di autoreferenzialità. E in fondo Haneke ha rovesciato in Happy end un compendio del suo cinema, che ha al centro la critica radicale dell’ipocrisia borghese, in altre occasioni mostrata con la stessa freddezza ma una più attenta analisi introspettiva dei protagonisti. La maestria del regista austriaco nel cesellare sullo schermo una claustrofobia del rimosso, del non detto e del non capito che avvelena i rapporti rimane notevole, come la scelta di oggettificare (più che oggettivare) i personaggi, quale misura della loro ristagnante passività. Splendido poi, esteticamente, il modo in cui viene resa la ferocia dei dispositivi, non solo lo smartphone che spia ma specialmente lo schermo del pc sul quale uno scambio in chat di proclami sentimentali e promesse sessuali perde la sua tensione erotica per diventare sgradevole, meccanico e intrinsecamente violento. Ma sono giusto passaggi. Haneke aveva forse voglia di dire troppe cose, e alla fine le ha dette superficialmente e battendo strade espressive già ampiamente battute in passato, non solo da lui. Un ritratto sferzante e pedagogico, magari, ma un po’ superficiale. Il regista, a causa della sua aspirazione oggettiva, è caduto nella classica trappola dell’arte che si limita a rappresentare, rimanendo in parte esteticamente risucchiato in quello stesso clima che rappresentava. Mi è venuto in mente il filosofo Nelson Goodman, che perorando una causa contraria a quella della pura rappresentazione imitativa in pittura, diceva: “Di questo fottuto mondo ce ne basta uno solo!”.
Happy end
Michael Haneke
Votazione finale
I giudizi
Perfetto
Alla grande
Merita
Niente male
Né infamia né lode
Anche no
Da dimenticare
Terrificante
Si salvi chi può
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