Recensione del film “Vermiglio”

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Neanche il regista più versatile riguardo a temi, epoche, ambienti è capace di cimentarsi con le memorie del mondo rurale e contadino se non c’ha respirato dentro per via della sua biografia. Non può contare seriamente sul supporto di una documentazione, e quand’anche ve ne fosse traccia sarebbe una parte infinitesimale del tramando orale, che solo può ricreare gli umori e l’atmosfera, e innescare l’empatia dello spettatore. Maura Delpero quel background ce l’ha, e dentro tali confini sta fin qui disegnando il proprio cinema: dall’esordio con Maternal a questo Vermiglio, che si è guadagnato il Leone d’Argento a Venezia, ed è un’opera che renderà felici i nostalgici dei fratelli Taviani e soprattutto di Ermanno Olmi. Lentezza, lirismo e parsimonia verbale (non fraintendetemi però: non è affatto un film attraversato da mutismi), dunque, nonostante il periodo che viene rappresentato, l’anno conclusivo della seconda guerra mondiale. Vermiglio però è un paesino montano del Trentino Alto Adige (quello stesso natale del padre della regista), e il mondo esterno più che raggiungerlo si corica esausto ai suoi margini. Della guerra si parla, della guerra si ha paura, la guerra si porta via i figli e porta nel paese transfughi e piccoli eroi, anche provenienti da luoghi italiani sin lì immaginati solo sulla cartina geografica. Cartina che si prende il suo ruolo, le sue inquadrature, il suo peso nel film, come peraltro ogni strumento didattico. Infatti, il personaggio cardine è il maestro elementare (interpretato dal bravissimo Tommaso Ragno), altresì vero maître-à-penser del paese, con il suo superiore livello di istruzione, il carisma, un profilo rigoroso etico, il fascino del tizio che non sprofonda nelle convenzioni, qualche misurato segreto libertino, l’ascolto dei vinili di classica, addirittura.

Un pater familias, che è il suo altro mestiere visto che di figli sua moglie ne ha partoriti dieci, alcuni caduti nella mortalità infantile dell’epoca, e i superstiti a cui il patriarca seleziona il futuro stabilendo chi è nato per studiare, chi per zappare la terra e chi per incrementare la progenie. Lo ritiene insito nel suo senso di responsabilità e per ottemperarvi mostra un cuore più indurito di come davvero è, ma questo provoca mugugni, sofferenze, solidarietà oppositive, e il giusto rimbrotto della moglie, che magari lui ama, sì, ma quando si presenta sulla soglia del letto di partoriente sembra più il medico di turno che l’originario portatore del seme. Il vento della guerra, però, fa piombare nelle mura familiari un matrimonio che si rivelerà ben più che inopportuno. Lo scandalo precipita sulla famiglia, e come in ogni piccolo borgo nulla mina l’autorità morale quanto lo scandalo: per di più aggiunto alla fine dell’emergenza che spingeva il gregge a stringersi intorno al pastore.

 Vermiglio viaggia su due piani: delle scene isolate e fulminanti che raccontano la poesia e la ristrettezza – di spazi, di opportunità e di autonomia – del mondo contadino (mettendo assai tra parentesi la fatica bruta) e il filone principale, quello della decadenza di una famiglia, focalizzazione che con l’avanzare del film un pochino indebolisce l’affresco sociale. Il declino va tuttavia relativizzato, perché coincide con una trasformazione, che ha un asse portante nella reazione emancipatrice femminile e nell’offuscamento del patriarcato: un reale dato sociologico dell’assetto postbellico – per via delle sostituzioni che le donne avevano dovuto operare nei ruoli coperti da chi era partito per il fronte – forse rispetto all’ambiente rurale un filo esagerato in chiave quasi femminista; ma si tratta pur sempre di una traccia tematica interessante, oltre che di cassetta in questo momento.

La macchina da presa è impeccabile, pure nelle scelte delle sequenze fisse. Tra queste, ne menziono alcune che si arrestano su una scheggia di paesaggio o sugli animali mentre la storia avanza nel fuoricampo. La fotografia è notevole, ancor più negli interni con inquadrature vermeeriane (quasi citazioniste) e rembrandtiane. Sull’uso esasperato del ponte sonoro nel montaggio (cioè, il sonoro della nuova scena comincia sopra la scena che sta finendo) ho delle riserve. Dovrebbe servire non solo a evitare lo straniamento allo spettatore ma anche un po’ a stupirlo, e qui è troppo didascalico, come se ci stesse prendendo per mano il maestro elementare. Trovo un po’ sopra la corretta proporzione anche l’espediente di far passare certe informazioni e sensibilità attraverso l’innocente voce dei bambini, e però pregevole è il loro inserimento in un assetto di recitazione felicemente collettivo.

Fra i caratteri distintivi dell’umanità vi è la tendenza a evitare la ripetizione, privilegiando l’innovazione creativa e ciò che è differente. A uno sguardo più attento, però, fenomeni e comportamenti ricorsivi risultano prepotentemente insediati nei fondamenti delle nostre vite, e non solo perché rimaniamo incatenati ai vincoli della natura. Come le stagioni e le strutture organiche nell’evoluzione, si ripetono anche i cicli storici e quelli economici, i miti e i riti, le rime in poesia, i meme su Internet e le calunnie in politica. Su concetti e comportamenti reiterati si basano l’apprendimento e la persuasione, ma anche la coazione a ripetere e altre manifestazioni disfunzionali. Con brillante sagacia, Remo Bassetti affronta un concetto finora trascurato, scandagliandolo nei vari campi del sapere, fra antropologia, letteratura e cinema, per dipingere un affresco curioso di grande ispirazione. Da Kierkegaard almachine learning, dai barattoli di Warhol ai serial killer, dai déjà vu fino alla routine, questo libro offre un’analisi profonda della variegata fenomenologia della ripetizione nel mondo moderno, sia nelle forme minacciose e patologiche sia in quelle che invece assicurano conforto, godimento e, persino, libertà.

Quanto siamo ripetitivi

Di |2024-10-29T14:45:45+01:0025 Ottobre 2024|2, Il Nuovo Giudizio Universale|

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