Recensione
La vendetta rappresenta un elemento essenziale della storia cinematografica e i film di vendetta un vero e proprio genere con una costruzione piuttosto costante, che parte dalla situazione in cui un personaggio è vittima (lui, o persone a lui care) e che si evolve verso la resa dei conti.Lo spettatore è invitato all’immedesimazione e il suo peso emotivo principale si risolve nel tifare per l’eroe.
La vendetta di un uomo tranquillo altera notevolmente questi canoni perché manca la prima fase. Di cosa ci sia da vendicarsi lo apprendiamo gradualmente, e non abbiamo il tempo di identificarci con la vittima: quando potremmo non ne abbiamo voglia, perché non abbiamo partecipato al suo dolore e cominciamo a conoscere, insieme a lui, i destinatari del suo odio, magari immersi in contesti ormai lontani da quelli dell’evento originario. E’ tardi per la rabbia (il titolo originale spagnolo del film è appunto Tarda para ira), la nostra e probabilmente anche quella del protagonista. In quel titolo si cela l’unica punto di vista morale, dato che il film non vuole apparire giudicante ma soltanto mostrare una sorta di anatomia della vendetta, presa nuda e cruda, nella sua fisicità spoglia, nella sua emotività nascosta in una rete di inganni, nella violenza obiettiva ma non spettacolare, dove il sangue c’è ma senza cadere nel gusto dello splatter. La violenza è quella vera e inevitabile, e viene messa in scena secondo una necessità estetica analoga al realismo letterario che all’interno di una tensione verbale impone di far esclamare ai protagonisti “cazzo” piuttosto che “perbacco”.
Per non tradire le esigenze dello spettatore, della trama è opportuno raccontare solo l’inizio. Dopo una rapina, resa attraverso uno spettacolare piano-sequenza iniziale, sappiamo che Curro, che faceva il “palo” aspettando i complici fuori con un’auto, scontati otto anni di galera senza rivelare i loro nomi, torna dalla compagna Ana (che da lui ha avuto un figlio, generato nella sala incontri del carcere). Lei nel frattempo riceve il corteggiamento di Josè, un signore taciturno, malinconico e benestante che ha preso a frequentare il quartiere marginale di Curro e Ana e che si rivela interessato a entrare in contatto con Curro.
Da qui la storia procede plumbea e carica di tensione. Josè, il vendicatore, ha pianificato, rispetto a ciò che lo interessa, alcuni dettagli con sottigliezza ma complessivamente è sprovveduto rispetto alla strategia di azione. Lo anima, in modo meccanico, la forza di una determinazione assoluta, che non ha tempo per meditare sulle radici del male e si ripiega su un insormontabile dolore interiore.
Il film è tagliente, disseccante, desertico: gli ambienti sono non-luoghi, non c’è spazio per l’empatia (che nessuno dei protagonisti merita), per la catarsi, non c’è spazio di frenata per gli eventi. Il regista, l’esordiente Raul Arevalo, cita il cinema dei Dardenne e di Garrone, e se ha ragione sotto il profilo della grevità esistenziale e dell’atmosfera, rispetto a quelli risente di un certo manierismo tecnico nella modernità del montaggio e delle inquadrature, salvo la felice eccezione della già citata scena iniziale, tutta girata dall’interno dell’abitacolo della macchina di Curro, dall’attesa dei compari sino all’incidente che pone termine alla fuga. Di straordinario c’è il ritmo narrativo, serrato a costo di sopprimere rigorosamente digressioni, battute, sfondi, sfumature. Nell’azzeramento dell’empatia tenere viva la suspense e le pulsazioni dello spettatore è una bella sfida, e Arevalo ci riesce. D’altronde quando è già tarda para la ira ogni altro rallentamento sarebbe fatale.
La vendetta di un uomo tranquillo
Raúl Arévalo
Votazione finale
I Giudizi
Perfetto
Alla grande
Merita
Niente male
Né infamia né lode
Anche no
Da dimenticare
Terrificante
Si salvi chi può
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