Recensione del film “Loveless”

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Chi non ricorda “Kramer contro Kramer?”. Ecco. Questo film è il suo opposto. Se Dustin Hoffman e Meryl Streep si contendevano, non sempre con maturità genitoriale magari, l’affido del loro bambino dopo la separazione,“Loveless” narra di un’altra coppia ai titoli di coda in cui, però, del figlio dodicenne nessuno sa che farsene. La scena più straziante per lo spettatore arriva piuttosto presto: dopo una violenta lite nella quale Zhenya e Boris esplicitano l’ingombro che rappresenta il piccolo Alyosha, vediamo chiudersi verso lo stipite la porta del bagno dove Boris era entrato a lavarsi le mani, e nello spazio rimasto vuoto dietro l’accesso comparire la figura muta e singhiozzante del figlio negato, emerso nell’inquadratura come se la porta fosse una pressa che lo aveva appena schiacciato. Vedremo poi Alyosha imboccare le scale di casa al mattino successivo e apprenderemo che non è andato a scuola ma è sparito. L’evento mobilita quelle due mediocrità ma non ne scuote oltre un certo limite le coscienze, che suonano irrimediabilmente cave. Continuano anche in questo momento a rivestire valore preminente i rispettivi approdi della fuga matrimoniale, per Boris una petulante giovincella che ha frettolosamente messo in cinta, reiterando lo schema già sperimentato con Zhenya, per Zhenya un paziente milionario divorziato. Di Zhenya scopriamo che le patologie anaffettive trovano radice in un rapporto altrettanto inappropriato generato da sua madre. Di Boris non sapremo se sia diventato tanto stronzo per sua personale diligenza: quel che è certo è che il principale sentimento d’angoscia glielo incute il licenziamento che potrebbe subire nell’azienda dove lavora, diretta da un cristiano ortodosso integralista, se venisse fuori che ha divorziato, un’onta che ancora

nessuno ha inflitto al buon nome dell’impresa.

 

Il regista Andrei Zvyangitsev, dopo l’opera più direttamente focalizzata sul decadimento politico e civile della Russia Leviathan, torna al dramma familiare di stile bergmaniano che nel film Il ritorno gli valse il Leone d’oro nel 2003. Di nuovo, però, non intende raccontare una vicenda di inadeguatezze individuali: egli erige i due genitori a paradigma sociale della banalità, se non del male, almeno del vuoto, che alligna nella borghesia cittadina del suo paese. L’indicazione più diretta dello sfascio russo è nell’inerzia della polizia, che chiamata dopo la scomparsa cessa ogni compito investigativo una volta acclarato che non si è consumato un crimine in famiglia, come se gli agenti fossero reporter alla ricerca del sanguinolento pruriginoso e non fosse affar loro cercare ragazzi scomparsi. La radio e la tv mandano in onda le notizie sul disordine sociale o l’invasione in Ucraina che si spengono in sottofondo buono per correre sul tapis roulant. Zvyangitsev sembra suggerire che il meglio che possiamo trovare in circolazione siano l’empatica rassegnazione verso la claudicanza morale del prossimo che  esprime il nuovo compagno di Zhenya o il fanatismo paramilitare (ma pur sempre generoso) delle squadre di soccorso volontario per le ricerche, alle quali la stessa polizia consiglia di rivolgersi per rimediare all’inefficienza burocratica.

 

Anche se la sceneggiatura è molto pulita, la poesia e la dialettica di Zvyangitsev sono essenzialmente visive, affidate alla macchina di presa dentro una scenografia sobriamente funzionale. Ripetute ed efficaci sono le inquadrature fisse con due personaggi che discutono affiancati in primo piano oppure abbandonano il campo senza che residui traccia umana (il regista si dimostra fra i più bravi al mondo anche nell’utilizzo della voce fuori campo); e costanti i piani sequenza in cui la camera avanza molto lentamente nella scena alla vana ricerca di dettagli che abbiano qualcosa da dire in più di quanto si percepisce in un campo più lungo. Il colore tenebroso denota cultura pittorica, orientandosi negli interni verso Goya e Rembrandt, o verso Tiziano quando la macchina si sofferma sulla nudità di corpi cui sembra sempre mancare una scintilla.

Le vetrate rese opache dalla pioggia rimandano alle meravigliose fotografie di Joseph Sudek: dall’altra parte delle finestre di Sudek c’era nulla più che il suo giardino, oltre le case di Loveless si intravede un’intera città ma abbiamo ragione di ritenere che sotto entrambe si agiti soltanto un brulicare di formiche. Desolante e senza redenzione, senza nemmeno offrirci il destro di stabilire come spettatori un contatto con Alyosha per immedesimarci in un dolore, il lirismo di Loveless ci consegna una mancia, solo apparentemente misera, nel gioco involontario e inaspettatamente perpetuo che abbarbica insieme un nastro sfuggito di mano e un ramo nel bosco.

 

Loveless

Andrei Zvjagincev

Votazione finale

I giudizi

soli_4
Perfetto


Alla grande


Merita


Niente male


Né infamia né lode


Anche no


Da dimenticare


Terrificante

ombrelli_4
Si salvi chi può

Di |2020-09-11T15:16:25+01:0029 Dicembre 2017|Il Nuovo Giudizio Universale|

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